Mentre Xi Jinping esorta il segretario di Stato americano Antony Blinken ad accettare la crescita della Cina e vedere in Pechino una potenza con cui collaborare, il New York Times pubblica una mappatura delle basi statunitensi e alleate nell’Indo-Pacifico. Una cintura di basi aeree, porti per navi e sottomarini, missili, hub e centri per raccogliere informazioni che si contrappone all’espansionismo cinese sullo scacchiare dell’Estremo Oriente, che va dalla Corea del Sud all’Australia, passando per Guam, Okinawa e le Filippine.
“Stati Uniti e Cina dovrebbero essere partner, non nemici”, ha affermato il leader della Repubblica Popolare Cinese all’attenzione del segretario di Stato statunitense, emissario dell’amministrazione Biden che dovrà fare i conti, se rimarrà alla Casa Bianca per un altro mandato, con la nuova fase di espansione economica, militare e d’influenza territoriale del Dragone.
Obiettivo “dissuasione”
Sul Ny Times vengono descritte come chain (catena), non come belt (cintura), il termine preferito da Pechino per i suoi progetti sulla Nuova via della Seta, ma sono essenzialmente delle linee concettuali che si districano dal Mar del Giappone e dal Mar Giallo che bagna la penisola Coreana, alla Malesia e alla Papua Nuova Guinea, e collega i centri di resistenza e risposta ad aggressioni che finirebbero col mobilitare gli Stati Uniti e il suo sistema di alleanze.
Lungo queste catene sorge infatti una rete di basi militari che custodiscono sistemi radar, missili di precisione, aerei tra i più sofisticati del mondo, navi e sottomarini inviate in missioni di pattugliamento nella regione strategica dell’Indo-Pacifico: il vero teatro che potrebbe vedere contrapposte le due più grandi potenze del mondo.
“Con missili, sottomarini e alleanze, l’amministrazione Biden ha costruito una presenza nella regione per frenare gli obiettivi espansionistici di Pechino”, scrive il noto quotidiano newyorkese; e anche se i funzionari del Pentagono hanno considerato gli Stati Uniti una potenza assoluta del Pacifico per mezzo secolo, posizionando “truppe e arsenali in una manciata di basi nella regione sin dal secondo dopoguerra“, “ciò non è più sufficiente per sventare quella che considera la più grande minaccia” dei prossimi tempi secondo l’amministrazione Biden: “l’invasione dell’isola di Taiwan da parte cinese“. Un’invasione che, riportano le fonti americane, ” potrebbe avere successo in pochi giorni“. Questo nonostante il continuo invio di armi sofisticate e la presenza sull’isola di addestratori appartenenti ai Berretti Verdi, unità d’élite dell’Us Army che sta insegnando le proprie tattiche all’esercito taiwanese come è avvenuto in passato in un altro teatro ora in conflitto aperto alle porte dell’Europa.
Miliardi di dollari e armi all’avanguardia
Dall’inizio della sua amministrazione il presidente Joe Biden ha abbracciato la strategia che si era prefissa l’obiettivo di espandere l’accesso alle basi militari dei partner regionali per potervi dispiegare “una serie di nuovi sistemi d’arma”. Gli Stati Uniti hanno sempre affermato che “difenderebbero Taiwan da un’invasione cinese”. E per questo hanno implementato i solo asset strategici in loco.
La Casa Bianca, che sta già sostenendo Ucraina e Israele nei conflitti in corso, ha firmato “un disegno di legge supplementare di spesa e aiuti militari da 95 miliardi di dollari che il Congresso aveva appena approvato e che include 8,1 miliardi di dollari per contrastare la Cina nella regione“, riporta il Ny Times. Questo mentre una crescente cooperazione e “patti di difesa trilaterale con Giappone e Corea del Sud – rispettivamente 6° e 8° potenze militari del mondo – procedono.
Secondo gli strateghi militari cinesi, gli sforzi degli Stati Uniti avrebbero come fine quello di arginare le forze navali nella Marina Cinese (Pla Navy) entro la “prima catena” rappresentata da tutte quelle isole vicine all’Asia continentale che vanno da Okinawa in Giappone a Taiwan, fino alle Filippine. Questa catena, o prima cintura di contenimento dovrebbe “impedire alle navi da guerra cinesi di entrare nelle acque aperte del Pacifico più a est” nel caso di una escalation che conducesse al conflitto allargato. Per tale ragione i vertici militari di Pechino ambiscono a stabilire il loro dominio militare d’oltremare oltre la “seconda catena” di isole, compresa tra Guam, Palau e Papua occidentale, garantendosi una certa libertà di manovra per la grande flotta cinese che continua ad ampliarsi a ritmi serrati.
Le due “catene” come argine dalle Filippine all’Australia
Il Pentagono ha già stretto un accordo di condivisione di basi militari con il governo di Manila, garantendosi l’accesso a 9 siti nelle Filippine, quattro da utilizzare per missioni umanitarie e cinque siti aperti al Pentagono nel 2014.
La maggior parte di essi sono considerate delle basi aeree con piste sufficientemente lunghe da consentire atterraggio e decollo di aerei cargo di grandi dimensioni; quindi capaci di accogliere e lanciare anche aerei da guerra come i bombardieri strategici e i caccia già dislocati presso le basi di Guam e Okinawa. Dagli hub nelle Filippine come quello segnalato sulla punta settentrionale dell’isola di Luzon, sistemi lanciamissili semoventi avrebbero “la capacità di attaccare le navi cinesi attraverso lo stretto che separa le Filippine da Taiwan“, mentre un altro avamposto nel settore sud-ovest “consentirebbe agli Stati Uniti di colpire le basi costruite dalla Cina nelle Isole Spratly“.
Sempre al fine di arginare l’influenza cinese nel Pacifico, il Pentagono ha stretto legami militari con l’Australia e la Papua Nuova Guinea, estendendo le capacità degli Stati Uniti e immaginando – sulla carta – di poter contenere i tentativi della Cina nel stabilire il dominio lungo e oltre la succitata “seconda catena di isole”. Il primo rafforzamento delle guarnigioni di Marines e di schieramento di ulteriori unità navali nella regione si era già osservato sotto l’amministrazione Obama.
Deterrenza dai sottomarini alle armi nucleari
Bombardieri strategici B-2 Spirit e B-1 Lancer sono schierati a Guam, caccia per la superiorità aerea F-22 e caccia F-15 sono presenti a Okinawa, mentre tutte le potenze alleate possono contare su velivoli d’attacco americani, ad iniziare da Taiwan. Il nuovo accordo Aukus che coinvolge Australia, Regno Unito e Stati Uniti, dislocherà permanentemente “alcuni dei più recenti sottomarini d’attacco di classe Virginia” nelle basi a sud di Canberra, sebbene l’ubicazione precisa non sia ancora nota. La Terza Flotta e la Settima Flotta dell’Us Navy- dislocate rispettivamente nel Oceano Pacifico orientale e nel Oceano Pacifico occidentale (e parte dell’Oceano Indiano) garantiscono un ulteriore componente di dissuasione e proiezione di potenza permanente.
Ma ben più importante per la deterrenza è stato lo spiraglio aperto dall’abbandono del Trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio risalente alla Guerra Fredda da parte dell’amministrazione Trump, azione che ha permesso agli Stati Uniti di “sviluppare e mettere in campo un gran numero di piccoli lanciatori mobili per missili precedentemente vietati in tutta l’Asia“. Il trattato proibiva di schierare missili da crociera o balistici con gittata compresa tra 500 e 5.000 chilometri.
Il capo del Partito Comunista cinese ha detto a Blinken che “se la Cina e gli Stati Uniti scelgono la cooperazione o lo scontro, ciò influisce sul benessere di entrambi i popoli, di entrambe le nazioni, e anche sul futuro dell’umanità”.
Una prospettiva di grande saggezza sulla quale fondare i migliori auspici, se solo venissero appianate le incompatibilità degli interessi di questi due grandi avversari.