Così hanno affondato le inchieste sulle Ong

Così hanno affondato le inchieste sulle Ong

Incredibile, ma vero: dopo sette anni, fiumi di intercettazioni, video, testimonianze, un agente sotto copertura a bordo e tre milioni di euro di spese, la madre di tutti i processi alle Ong del mare cola a picco.

La lettura delle 17 pagine di requisitoria del procuratore aggiunto di Trapani, Maurizio Agnello, è illuminante. Il primo passo dell’affondamento del processo sancito venerdì dal giudice dell’udienza preliminare durata due anni, una delle più lunghe della storia giudiziaria italiana. L’accusa ricorda che «è stata la Corte di Cassazione» a ritenere «che si fossero verificate consegne concordate di migranti». Subito dopo il processo viene smontato per i filoni di indagine su nave Iuventa, ridotta ormai ad una carcassa dal lungo sequestro, Vos Hestia allora noleggiata da Save the Children e Vos Prudence di Medici senza frontiere. Testimoni chiave come Pietro Gallo e Lucio Montanino, ingaggiati dalle Ong del mare attraverso una società di sicurezza, diventano inattendibili per avere «ridimensionato le precedenti accuse» tramutandole in loro «pensieri». L’unico che resiste è Montanino: «Ha riferito di ricordare perfettamente due barchini legati fra loro con due persone a bordo, che dalla Iuventa facevano rotta (di rientro) verso la Libia», ma «collocando tuttavia questo episodio al 10 ottobre (e non settembre quindi) del 2016». Dopo 8 anni forse ci si può confondere fra un mese e l’altro.

La scarsa attendibilità, secondo Agnello, deriva dal fatto che questi testimoni volevano utilizzare la situazione «con un leader politico fortemente interessato alle politiche migratorie (Matteo Salvini, ndr) al fine di ricavarne un guadagno sotto forma di un posto di lavoro prestigioso e ben retribuito, tale da poter riscattare il loro allontanamento dalla Polizia di Stato».

Anche foto e relazioni dell’agente sotto copertura a bordo di nave Vos Hestia non vengono considerate prove definitive. «Rimane un grande dubbio (o addirittura non risulta per niente provato) circa l’effettiva presenza di scafisti che abbiano accompagnato i migranti e poi fatto rientro verso le coste libiche» si legge nella requisitoria. Il procuratore ammette che il 18 giugno 2017 «sono gli scafisti (ovvero i c.d. cacciatori di motori) a prendere il motore da un gommone soccorso». Però «i Rib delle navi Ong sono ben distanti». La vera mazzata al grosso dell’inchiesta riguarda il coinvolgimento della Guardia costiera italiana. Durante l’udienza preliminare, è saltato fuori che le navi delle Ong «una volta comunicata la loro presenza al centro di coordinamento si siano strettamente attenute alle indicazioni ricevute da Imrcc (il centro di soccorso di Roma, ndr), anche accogliendo a bordo su specifica richiesta dei militari un numero di migranti di gran lunga superiore alla loro capacità di carico». Gli ordini impartiti dalla Guardia costiera, secondo la requisitoria, «assolve» le Ong dall’accusa di essere dei taxi del mare. «Neppure nelle intercettazioni ambientali (a bordo delle navi, ndr)» non è stata riscontrata () la deduzione investigativa di contatti intercorsi fra gli imputati e scafisti finalizzati alla «consegna concordata di migranti». La giustificazione sui barchini abbandonati alla deriva, poi recuperati dagli scafisti, salta agli occhi: «Appare frutto più della deliberata intenzione di agevolare la condotta criminale di terzi, di evitare scontri con gente priva di scrupoli e spesso armata». Il procuratore aggiunge che «pur avendo l’attività degli imputati oggettivamente agevolato l’ingresso di cittadini non appartenenti all’Ue sul territorio dello Stato, questa non appare frutto della loro volontà di aggirare la normativa». La tesi di fondo e che non ci sia dolo e per questo dal 28 febbraio, la stessa accusa, aveva chiesto «il non luogo a procedere () perché il fatto non sussiste».

Giusto o sbagliato è l’epitaffio sulla madre di tutti i processi, che come riflesso suggella una specie di impunità umanitaria per le Ong del mare.

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