Nella notte tra venerdì e sabato scorso il mercato delle criptovalute ha avuto un sussulto. Un crollo di oltre 7 punti che ha mandato in fumo un valore complessivo di oltre 1,5 miliardi di dollari. Quel crollo, repentino e chirurgico, avrebbe una sola causa: l’Iran. La Repubblica islamica è entrata a gamba tesa nel mercato per pagare i raid contro Israele. Ma non solo. Ne avrebbe approfittato per incassare milioni di dollari aggiuntivi.
Da Teheran, ovviamente nessuna ammissione, ma gli indizi vanno in quella direzione. «È stata un’operazione violentissima», spiega al Giornale, Elham Makdoum, analista di crypto-intelligence, di blockchain analytics e di geopolitica delle criptovalute, «In una notte abbiamo visto un crollo nel valore dei Bitcoin che non vedevamo da marzo», ma il punto, continua Makdoum, è che non si è trattata di volatilità normale, «non è stato fisiologico, ma una cosa troppo repentina, anche nel tempo di recupero». In sostanza, continua, il valore è crollato a 60 mila dollari per poi tornare sopra i 63mila nella mattinata di domenica.
Questo attacco al mercato è stato condotto lungo due direttrici. Da un lato l’Iran avrebbe venduto una fetta dei suoi Bitcoin, un’operazione capace di fruttare molto. Solo vendendo 50 bitcoin, in quel momento attestati sui 67mila dollari, Teheran avrebbe potuto guadagnare 3,35 milioni di dollari, cifra sufficiente a ripagare i 170 droni impiegati contro Israele. Dall’altro lato avrebbe operato sui futures scommettendo sulla diminuzione del mercato. «È un’operazione di leva per avere liquidità immediata. Se ad esempio l’Iran incassa con la vendita 130 milioni di dollari (la somma che il mercato ha perso nella notte del 13 aprile) e li immette nel mercato dei futures, dove probabilmente è entrato con una leva 100x, sicuro dell’andamento del mercato, ha moltiplicato l’investimento incassando 1,1 miliardi. Quindi nel mercato tradizionale sono andati in fumo 130 milioni di dollari e nei futures 1,5 miliardi, 1,1 dei quali finiti a Teheran che ha alterato tutto.
La repubblica degli Ayatollah e l’asse della resistenza hanno trovato nelle criptovalute una leva non da poco. Per l’Iran le monete virtuali sono uno strumento per allentare le sanzioni e avere liquidità. Le operazioni di leva, infatti, «si possono fare in pochissimo tempo, vanno dai 5 minuti a un’ora». E l’Iran è un pesce così grosso da poter manipolare il mercato.
Negli ultimi anni Teheran è diventata una potenza delle cripto. Il suo mining legale, l’operazione di validazione dell’architettura delle cripto che fruttano diversi Bitcoin, equivale al 5% del mercato globale che la colloca poco lontano dai colossi Cina, Stati Uniti e Russia. «Per l’Iran le cripto sono anche uno strumento per allargare la sfera di influenza». Non a caso la Repubblica islamica ha progetti con la Russia e legami importanti con il colosso delle cripto per eccellenza, la Cina.
L’intero asse anti-occidentale utilizza questa leva. Gli alleati di Teheran, come Hamas e Hezbollah, hanno dipartimenti dedicati. «L’Iran ha fornito ai suoi proxy il know-how, strumenti per il mining (la ricerca), ma anche prestanome dato che per operare nei criptomercati serve la validazione dell’identità». Teheran e il suo ecosistema di milizie pesa molto sull’intero mercato. «Se contiamo l’attività di mining dei gruppi affiliati e i centri illegali, la quota di mercato sfiora il 10%». Una quota notevole se si considera quella Usa che è del 37%.
L’elemento decentralizzato di monete come i Bitcoin fa gola a tutte le milizie. «Anche lo Stato islamico», conclude Makdoum, «ha prodotto un documento che elogia la finanza decentralizzata, contro la finanza kefir, dei peccaminosi occidentali».
Un segnale che l’Occidente non può ignorare.