Più di dieci anni fa, all’epoca ero direttore del Tg1, incappai nelle regole bislacche della «par condicio» e per dieci anni sono stato perseguitato da un procedimento della Corte dei Conti. Una vicenda paradossale che dà l’idea della stravaganza di una legge che non ha eguali al mondo tant’è che esiste solo da noi. Io vi incappai perché alla vigilia delle elezioni provinciali e comunali del 2011 ebbi l’ardire in campagna elettorale di mandare in onda uno speciale, unico tg del servizio pubblico visto che gli altri erano terrorizzati da quelle norme, sull’eliminazione di Osama Bin Laden da parte dei reparti speciali americani. Invitai in studio l’allora ministro degli Esteri, Franco Frattini, che per dirla tutta non è mai sembrato un uomo di parte visto che teneva un aplomb istituzionale anche nei comizi, e l’ora e mezza passata in diretta fece sballare i dati di presenza e aprì la strada ad un caso assurdo che è andato avanti per anni e anni. Quindi, la mia colpa era stata di aver fatto il giornalista di fronte alla morte di un personaggio che aveva segnato – e ancora oggi influenza – la storia del pianeta. Per rispettare le regole della par condicio avrei dovuto voltare la testa da un’altra parte come gli altri direttori dei Tg Rai o magari invitare un pinco pallino e non il titolare della Farnesina, cioè la persona più informata di quello storione raccontato in diretta.
Questo per dire quanto sia assurda quella legge che la Commissione di vigilanza Rai si appresta di nuovo ad emendare quando la strada migliore sarebbe quella di abolirla del tutto. Forse, e dico forse, aveva avuto una ratio quando Silvio Berlusconi, proprietario di tre Tv, scese in campo trent’anni fa, ma oggi che senso ha? Serve solo a mortificare il lavoro dei giornalisti e ad ingabbiare l’informazione. E magari addirittura a catalogarli, ad affibbiargli una casacca se per caso prendesse corpo la proposta, per alcuni aspetti perversa, di Maria Elena Boschi di invitare nei talk cronisti «dai punti di vista alternativi».
Eppoi è proprio l’esperienza di questa legge calata nella realtà a dimostrare che serve a poco in uno scenario che da allora è profondamente cambiato dove intervengono nelle campagne elettorali tanti strumenti a cominciare dai social, da tweet a tik-tok. La verità è che il mondo è andato avanti e una legge sbagliata allora lo è ancora più oggi. Del resto negli ultimi anni sono le proprie forze che hanno avuto poco spazio in Tv, e per questo ammantate da una patina di novità, ad essersi imposte nelle competizioni elettorali. «Quello che conta alla fine – riflette il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani – è il sentimento popolare, l’onda del momento. Basta guardare quello che è successo a noi di Fratelli d’Italia che abbiamo vinto le elezioni stando all’opposizione, quindi, senza aver nessun privilegio televisivo. O ancora qualche anno fa, quando vinsero i grillini, che in video neppure apparivano».
È la proposta, le leadership, la novità, l’appeal del momento a determinare i giochi elettorali. E quando prendono corpo questi fenomeni i media sono costretti, volenti o nolenti, a raccontarli. Commi e regolamenti servono solo rendere il nostro Paese meno «occidentale». «Si imbriglia solo l’informazione», osserva un piddino controcorrente come Matteo Orfini. Alla fine nelle campagne elettorali si fa più attenzione alle presenze in tv che non ai programmi. Una condizione surreale. «A volte mi chiama qualche giornalista delle Tv pubblica – ammette Enrico Costa, uno dei luogotenenti calendiani – e mi accorgo che non gli interessa la mia opinione ma solo poter scrivere una x nei dati di presenza in Rai».
Insomma, è mortificante anche per i politici. Solo che ormai è un rito, una tradizione, di cui la classe politica forse per inerzia non può fare a meno. «È l’Italia di sempre – spiega il piddino Nicola Stumpo – quella dei guelfi e dei ghibellini. Non siamo un Paese normale».
Solo che la «par condicio» purtroppo, a conti fatti, serve solo a codificare questa patologia.