Conobbi per la prima volta Bernardo Caprotti nel 2007. I tentativi che pose in atto per incontrarmi parlano da soli e testimoniano quanto la pertinacia di quest’uomo fosse illimitata. Non disponendo del mio numero di telefono, Caprotti interpellò la Comunità ebraica di Milano. Disse che doveva assolutamente parlarmi. Poi cominciò a farmi tempestare di telefonate dalla segreteria dell’Esselunga. Non capivo il motivo di tanta insistenza. All’inizio credevo che ci fosse stato uno scambio di persona, che cercassero la vincitrice di qualche premio riservato alle clienti più affezionate. Ricordo che a un certo punto mi spazientii con una delle sue impiegate. Le dissi: «Ma insomma, che volete da me? Non faccio nemmeno la spesa da voi! Sono un’anziana signora che vive da sola con la domestica, per comodità devo servirmi del supermercato più vicino a casa: le borse pesano». Mi fu spiegato che non era per quello che Caprotti mi stava inseguendo, bensì per comunicazioni molto importanti.
M’incuriosii e decisi di riceverlo. Era un tardo pomeriggio di maggio, quando venne a trovarmi. Gli offrii un aperitivo. Mentre lo sorseggiavamo, cominciò una conversazione atipica, non dico un dialogo tra sordi, ma quasi. Caprotti prese infatti a spiegarmi che ero stata infinocchiata da astuti affaristi nella vendita, avvenuta vent’anni addietro, di un terreno che, ancora bambina, avevo ereditato da mio nonno in provincia di Modena, lungo l’antica via Emilia dei Romani, sul quale era stato poi costruito un immenso centro commerciale della Legacoop. Allora non lo sapevo: Caprotti stava combattendo da anni contro il colosso rivale della grande distribuzione. Mi spiegò per filo e per segno quanto fossi stata sciocca a cedere quella proprietà a un prezzo largamente inferiore ai valori di mercato, circostanza della quale fino a quel momento ero rimasta totalmente all’oscuro. Addirittura insisteva affinché, a distanza di tanto tempo, valutassi la possibilità di citare in giudizio il notaio, che a suo dire era stato in malafede. Mi parlava di incauto acquisto o di incauta vendita, non ricordo di preciso. A un certo punto, sbottai: «Senta, io ero tutta contenta di aver ceduto quel terreno. Ora lei arriva a casa mia e mi svela che sono stata turlupinata, ma io ho vissuto serena fino a oggi. Perché è venuto a dirmelo? Per farmi sentire una cretina? Per dimostrarmi la mia inettitudine?». E lì accadde un fatto davvero imprevedibile: Bernardo Caprotti si commosse, fino alle lacrime. Un uomo da sempre abituato a ottenere con rocciosa determinazione tutto ciò che voleva, si dimostrò fragile davanti a me, davanti a un’anziana donna. Perché? Non avevo capito! Non era venuto per parlarmi di vicende mercantili. Mi aveva cercato solo per dichiararmi tutta la sua amicizia, quella con la A maiuscola che mi avrebbe di lì in avanti dimostrato fino alla morte. Voleva per me una sorta di risarcimento morale alle ingiustizie e al dolore che avevo patito da bambina. Nient’altro.
Qualche anno dopo, cresciuta fra noi la confidenza che ci portò in modo del tutto spontaneo a darci del tu, mi venne naturale offrirmi di accompagnare il mio amico Bernardo a visitare il Memoriale della Shoah, che si trova sotto la Stazione centrale. È un luogo per me molto importante. Da lì, dal binario 21, il 30 gennaio 1944 partì il treno che condusse mio padre Alberto e me ad Auschwitz-Birkenau, insieme con altri 605 ebrei. Alla fine della guerra, tornarono a casa solo in 22, e io fra questi. Dai campi di sterminio non tornò il mio papà, non tornarono i miei nonni paterni Olga e Giuseppe. Progettato dagli architetti Guido Morpurgo ed Eugenio Gentili Tedeschi, il Memoriale della Shoah giaceva nell’oblio, rimaneva incompleto per mancanza di fondi, sembrava destinato a non vedere mai la luce. Ed ecco il risarcimento, non più soltanto morale: con uno slancio di generosità, Bernardo Caprotti si offrì all’istante di contribuire al finanziamento dell’opera, affinché rimanesse vivo il ricordo dell’orrore che costò la vita anche a suo cugino André, assassinato dai nazifascisti francesi il giorno della liberazione di Parigi.
Da quel momento in poi, ci fu tra me e Bernardo un continuo e reciproco scambio di memorie e di pensieri. Volle presentarmi sua moglie Giuliana, sua figlia Marina con il marito Chicco, e anche l’altra figlia, Violetta. Mi mandava a casa enormi mazzi di fiori. Pretese a tutti i costi di sponsorizzare alcuni eventi pubblici in cui m’invitavano a parlare. Era come se a ogni nostro incontro lui volesse cercare le affinità elettive e non elettive che legavano due vecchi signori d’altri tempi in quelle che Gianni Agnelli chiamava «le fedeltà generazionali». Finimmo a parlare dell’impresa tessile della sua famiglia, la Manifattura Caprotti. Si sorprese molto che mio nonno Giuseppe avesse fondato nel 1897 la Segre & Schieppati, un’azienda di tessuti. Gli piacque pensare che i nostri genitori si fossero senz’altro conosciuti nel commercio dei cotoni. Era certissimo che entrambi avessero indossato i knickerbockers, i pantaloni alla zuava, e guarda caso mio padre li portava, così come il suo.
Le intuizioni di Caprotti mi stupivano ogni volta. Mi fecero concludere che fosse dotato di una specie di preveggenza, quella che gli aveva consentito, in anticipo sui tempi, d’immaginare per primo l’avvento e lo sviluppo dei supermercati in Italia. Accadde poi una cosa stranissima. Mio marito, Alfredo Belli Paci, era originario di Pesaro. Fu lì che lo conobbi, durante una vacanza sulla spiaggia della città marchigiana. Quando raccontai a Bernardo questa circostanza, il suo volto s’illuminò: aveva vissuto anche lui per molti mesi a Pesaro, da bambino, ospite della famiglia Brilli Cattarini. Ebbene, i Brilli Cattarini erano tra gli amici più cari anche di mio marito. Quasi che i destini, il suo e il mio, si fossero incrociati molto prima, lontano dalla nostra Milano. Di Bernardo Caprotti rimpiango i modi cavallereschi e gli atteggiamenti fraterni, che lo portavano a confidarmi grandi angustie e piccoli segreti della sua vita privata. Mi capitava allora di dirgli: «Ma perché racconti a me queste cose?». E lui rispondeva: «Perché per me tu sei come una sorella».
L’ultima volta che vidi Bernardo fu alla fine della primavera del 2016. Mi ricevette non più nel salotto, bensì nello studio attiguo. Indossava le pantofole: non era da lui. Lo vidi trasformato. Un uomo costretto a rimanere in casa. Un leone confinato dietro le sbarre da quel grande circo che è la vita. «Non sto bene, Liliana», mormorò. Non servirono altre parole. Era arrabbiato con la malattia. Di solito d’estate andava nella sua casa sull’isola di Skiathos, in Grecia. Mi scriveva e mi telefonava anche da là. Quell’anno gli mancarono le forze per affrontare il viaggio. Andò ospite della cognata Paola e dei nipoti a Forte dei Marmi, a Villa Nadina, la storica residenza dei Caprotti che suo padre Giuseppe aveva acquistato nel 1946. Ma fu costretto a ritornare anzitempo. A fine settembre, l’epilogo.
Credo che sia stato lui, prima di morire, a raccomandare alla moglie Giuliana e alla figlia Marina d’invitarmi al suo funerale. Andai. Ci trovammo davvero in pochi, di buon mattino, a dirgli addio nel santuario arcivescovile di San Giuseppe, a 200 metri da dove abitava. Era stata una sua precisa richiesta nel testamento: «Non disturbare il prossimo». Eravamo invece soltanto in due, la vedova e io, il giorno in cui il suo nome venne iscritto nel Famedio, il pantheon dei milanesi illustri nel Cimitero monumentale, con una cerimonia molto toccante, ma sempre all’insegna di quella riservatezza che fu la cifra della sua intera esistenza.
Qualche mese fa, ho notato in libreria una copertina strana, quasi un ritaglio di tappezzeria, con sovrimpresso il disegno di un carrello squarciato. Io nella lettura sono bulimica, perciò ho comprato quel libro. Il titolo parlava di ossa. Lì per lì non mi sono nemmeno resa conto che lo aveva scritto il figlio di Bernardo. Ho letto un po’ di pagine, sbalordita. L’ho subito richiuso. Certi fatti io neanche li conosco, né voglio conoscerli. Ma, da mamma e da nonna, sono rimasta molto male per l’autore.
Ho capito che non è riuscito a fare pace con la memoria di quel padre così eccezionale.