Vi sarebbe l’Isis-k dietro l’attentato a Mosca in quel del Crocus City Hall. Una rivendicazione che è giunta ieri a tarda notte attraverso Telegram e che deve essere sottoposta a tutte le verifiche del caso. Il gruppo non aveva infatto fornito alcuna prova di tali affermazioni.
A poche ore dall’attentato, sembra profilarsi una pista legata a ritorsioni dell’organizzazione jihadista contro la partecipazione della Russia ai conflitti in Siria e nel Sahel africano, ipotesi che non convince, buona parte degli analisti. Fonti Usa confermwerebbero la pista del terrorismo islamico: la Cbs e l’inglese Bbc citano fonti di intelligence che confermano la presenza di un “flusso costante di informazioni“, risalenti a novembre, sull’intenzione dell’Isis di colpire in Russia. Alcune informazioni molto specifiche sono state poi trasmesse anche al governo russo, nonostante i gelidi rapporti tra Washington e Mosca.
La rivendicazione dell’Isis
Nella rivendicazione dell’attacco, lo Stato Islamico afferma che i responsabili sono rientrati in sicurezza alle loro basi. “I combattenti dello Stato islamico hanno attaccato un grande raduno di cristiani nella città di Krasnogorsk, alla periferia della capitale russa, Mosca, uccidendo e ferendo centinaia di persone e causando grandi distruzioni al posto prima di ritirarsi nelle loro basi in sicurezza“, si legge. Il New York Times riferisce invece che l’ambasciata Usa a Mosca il 7 marzo aveva lanciato un’allerta e che il suo personale stava “monitorando” le informazioni relative a “piani imminenti” da parte di gruppi “estremisti” per attacchi in luoghi di ritrovo a Mosca, “compresi i concerti“. Nell’allerta, l’ambasciata avvertiva gli americani che l’attacco sarebbe potuto avvenire nelle successive 48 ore. Secondo fonti del Nyt, l’allerta lanciata dall’ambasciata Usa il 7 marzo è collegata all’attacco di questa sera. Una segnalazione che non giungeva a sorpresa a Mosca, poiché lo stesso Fsb, nelle stesse date dell’avvertimento americano registrava uno sventato attacco armato da parte dei militanti dell’Isis in una sinagoga di Mosca.
Il ritorno dell’Inguscezia
La prima domanda da porsi è di quale frangia di Isis stiamo parlando. L’iconografia e i tempi dell’attentato sembrano suggerire un attacco dai contorni inconsueti, slegati dalla retorica islamista antioccidentale, bensì indirizzati precipuamente alla Russia.
Dalle prime analisi, il gruppo potrebbe avere trovato origine e riparo in Inguscezia: l’azione sarebbe legata al pugno duro di Putin qui e in Cecenia. L’Inguscezia, in particolar modo, incastrata com’è fra Ossezia del Nord e Georgia, è uno dei luoghi caldi del Caucaso ex-sovietico. E a questo proposito potrebbe suonare sinistro lo scontro a fuoco di circa tre settimane fa qui avvenuto tra le forze di sicurezza russe e presunti militanti dell’Isis. Un’aggressione violenta che avrebbe lasciato uccisi sei terroristi. La regione è nel mirino da tempo, sia per la sua vicinanza alla Cecenia, sia perché protagonista di un’insurrezione islamista contro Mosca, aggravata dalla coscrizione obbligatoria legata all’ “operazione speciale“, e le cui milizie fanno parte delle forze russe combattenti. I sei uomini si erano barricati in un’abitazione a Karabulak, una cittadina di circa 30mila abitanti: dalle poche notizie trapelate si era appreso che almeno tre dei terroristi fossero nella lista nazionale dei ricercati da Mosca.
Il Daghestan, quartier generale dell’Isis
Con lo scoppio del conflitto in Ucraina, il Caucaso è stato soggetto a diversi riallineamenti. Nel novembre scorso, ad esempio, era tornata agli onori della cronaca la regione del Daghestan, investita dalla rivolta dei manifestanti anti-israeliani che presero d’assalto l’aeroporto di Makhachakala. Esiste un filo tutt’altro che sottile che collega Cecenia, Inguscezia e Daghestan. Quest’ultimo, infatti, dagli anni Novanta, è stato terra di conflitto tra sufismo e i salafismo-wahabismo ceceno. La popolazione del Daghestan è a maggioranza musulmana (circa l’85%), sunnita di tradizione sufi. Nel 1999, un’insurrezione scatenata dagli islamisti della Cecenia ingenerò un lungo periodo di instabilità e di violenze: un conflitto nel quale i daghestani combatterono per resistere al progetto islamista di Grozny. Putin ebbe di che gioirne.
Il 1° ottobre di quell’anno iniziava la seconda guerra cecena. Nel 2007 il leader ceceno Doku Umarov, volendo instaurare la shari’a nel Caucaso settentrionale (impresa che è riuscita a Kadyrov), fondò il sedicente Emirato del Caucaso, che strizzava l’occhio ad Al Qaeda. Nel 2014, divenuto nemico giurato di Putin, venne ucciso dalle forze russe alle prese con le Olimpiadi invernali a Sochi.
Le organizzazioni islamiste locali, dunque, si trasformarono in minuscoli accoliti di un Daghestan indipendente e fedele alla shari’a. In questo scenario comparve l’Isis, con il preciso obiettivo di fare del Daghestan il proprio quartier generale, provocando la Cecenia, relegata a Cenerentola caucasica. A differenza della Cecenia, il Daghestan non ha mai espresso la volontà di separarsi della Russia, in particolare a causa della grande diversità etnica e linguistica. Tuttavia, anche qui, si sono sviluppate importanti fenomeni di resistenza ai diktat Mosca: nel settembre del 2022, la mobilitazione parziale annunciata da Putin scatenò, infatti, violenti scontri fra la polizia e gli insorti. Un punto in comune con i frenemies caucasici tutt’altro che asserviti passivamente allo zar.
La rielezione di Putine il probabile prolungamento del conflitto in Ucraina potrebbe aver soffiato sulla cenere che la regione cova, portando l’Isis a mnifestare il dissenso dell’area per un tributo di sangue che non è più disposta a fornire.