«Disaccordo». Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu conferma alla Knesset le divergenze sempre più forti con gli Stati Uniti sull’annunciata invasione di terra della città di Rafah, considerata da Israele l’ultima roccaforte di Hamas da espugnare nella Striscia di Gaza. «Siamo in disaccordo con gli americani, non sulla necessità di eliminare Hamas, ma sulla necessità di entrare a Rafah – ha detto «Bibi» alla Commissione Affari Esteri e Difesa – Ma siamo determinati a farlo. E non c’è altro modo di farlo se non entrando via terra».
La prospettiva di un’invasione della città a sud della Striscia, in quel confine con l’Egitto dove sono ammassati un milione e mezzo di palestinesi disperati, è stata al centro della telefonata di lunedì, dopo un mese senza contatti diretti, tra Joe Biden e il premier israeliano, con il presidente americano che ha avvertito di «un errore» in grado di portare «più caos a Gaza». Il caso Rafah, e le sue conseguenze sui civili palestinesi allo stremo dopo 166 giorni di guerra, sono ormai il pomo della discordia fra Washington e Tel Aviv, tanto che la prossima settimana funzionari americani e israeliani si incontreranno a Washington per discuterne, dopo l’invito di Biden. Netanyahu ha annunciato che invierà due dei suoi più fidati consiglieri: il ministro degli Affari Strategici Ron Dermer e il consigliere per la Sicurezza Nazionale, Tzachi Hanegbi.
Eppure l’invasione dell’ultima roccaforte di Hamas non è la sola fonte di tensioni tra Usa e Israele. Lunedì «Bibi» si sarebbe lamentato al telefono con Biden dei continui attacchi alla propria leadership, dopo che il capogruppo democratico al Senato Usa, Chuck Schumer, lo ha definito «un ostacolo alla pace» e Biden ha sostenuto che stia «facendo più male che bene a Israele». Il presidente americano avrebbe rassicurato Netanyahu che non intende spingerlo all’uscita di scena, ma il clima tra i due resta teso, tanto che il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, in partenza oggi per il Medioriente per il sesto viaggio nella regione, secondo il Washington Post potrebbe per la prima volta non fare tappa in Israele, dopo le visite in Arabia saudita ed Egitto. Come se non bastasse, a cavalcare le divergenze si precipita Donald Trump. Per l’ex presidente i democratici «odiano Israele» e ogni ebreo americano che li vota «odia la sua religione». Il portavoce della Casa Bianca definisce «vile retorica antisemita fuori controllo» quella del tycoon, ma tanto basta per provare che la guerra a Gaza sarà usata in campagna elettorale.
Anche per questo il cessate il fuoco è cruciale per Biden. David Barnea, capo del Mossad, ha lasciato ieri i negoziati in Qatar, confermando che non si è ancora vicini a un accordo, ma c’è cauto ottimismo. La speranza è che si trovi un’intesa per la fine del Ramadan. Anche se il blitz all’ospedale Al Shifa, dal quale ieri l’esercito si è ritirato dopo aver ucciso 50 miliziani, ha rischiato di far saltare le trattative. In questo contesto, per la prima volta dal 7 ottobre, è entrata in gioco anche la Cina, che ha inviato a Doha il diplomatico Wang Kejian, per incontrare il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh.
La guerra a Gaza continua nel frattempo con attacchi senza sosta. Un raid israeliano ha ucciso il direttore della stazione di polizia di Nuseirat, nel centro della Striscia. A Gaza i morti sono ormai quasi 32mila e Oxfam denuncia livelli «catastrofici di fame, i più alti mai registrati», l’Onu che l’uso della fame come tattica è un «crimine di guerra».