Irrompono con metodi violenti, poi vanno all’assalto. Praticano l’intolleranza spacciandola come legittimo dissenso. Occupano piazze, scuole e università strillando slogan ereditati dal passato. Recepiti dagli anni del terrorismo rosso. Se necessario, sono anche pronti allo scontro fisico con la polizia, verso la quale non nascondono una viscerale insofferenza. Gli intolleranti che agitano i cortei anti-Israele appartengono a un mondo capace di organizzarsi sottotraccia e di emergere poi con improvviso impeto: quello del movimentismo e delle sigle riconducibili all’ultrasinistra militante. Tra collettivi studenteschi, centri sociali, Cobas e gruppi para-politici d’impronta comunista, gli odiatori col pugno chiuso sono strutturati in una fitta rete disseminata in tutta Italia. Da Nord a Sud.
Venerdì scorso a fare notizia erano stati i giovani che all’Università Federico II di Napoli avevano impedito di parlare al direttore di Repubblica, Maurizio Molinari. Ma analoghi episodi erano accaduti anche nel recente passato, sempre negli atenei, dove i novelli agit-prop rappresentano una minoranza sì, ma molto rumorosa. «Nelle università vi è da bandire l’intolleranza», aveva ammonito il presidente Sergio Mattarella. Ma il richiamo del Colle non ha sortito effetti sugli estremisti, che anzi sono venuti allo scoperto per rivendicare le loro gesta. A difendere il blitz antidemocratico alla Federico II sono stati sui social la Rete studentesca per la Palestina, il Centro Culturale Handala Ali, il Laboratorio Politico Iskra e il centro sociale partenopeo «Je so’ pazzo», presente anche ai recenti scontri con la polizia alla Rai di Napoli. Tra i promotori delle incursioni negli atenei c’è anche l’organizzazione giovanile comunista «Cambiare Rotta», ormai presente in tutte le grandi città italiane e nota alle forze dell’ordine per aver animato le manifestazioni anti-Israele degli ultimi mesi. Compresa quella a Pisa, contrassegnata da tensioni e provocazioni contro i tutori della pubblica sicurezza. Già, perché la mappa dei violenti si snoda lungo l’intera Penisola, intessuta con l’ideale filo rosso dell’ideologia.
A Roma sono decine le sigle antagoniste attenzionate dalla polizia, ma nelle ultime settimane a infiammare il clima sono stati soprattutto i collettivi che gravitano attorno alla Sapienza. Ieri protestavano contro il patriarcato, le multinazionali e il fascismo immaginario, oggi contro i «sionisti» che vorrebbero espellere dall’ateneo. Come nelle dittature. A inquietare sono poi le simbologie e i toni utilizzati. Tra stelle rosse a cinque punte e pugni chiusi, gli attivisti si compiacciono nel «sanzionare» chi non la pensa come loro: quel verbo, in voga ai tempi delle Brigate Rosse, evoca un tremendo passato a cui certa militanza sembra ancora guardare con nostalgia.
La geografia dell’odio conduce poi in Toscana, dove ogni anno il Cpa Firenze Sud oltraggia i morti delle Foibe sventolando le bandiere dell’ex Jugoslavia di Tito. A Empoli il Csa Intifada ha recentemente celebrato i 40 anni dalla nascita dell’Esercito Zapatista messicano, a Milano la Rete dei comunisti ha tappezzato la città con manifesti sul boicottaggio di Israele. Ma anche in Veneto, Emilia e Liguria la militanza più intransigente non manca. A Torino, a fare la voce grossa è il centro sociale Askatasuna, nel quale ha scritto nei mesi scorsi la Cassazione ci sono alcuni attivisti che coltivano propositi di «lotta armata» attraverso la «preordinata provocazione di contrasti con le forze dell’ordine». Tollerati o talvolta addirittura vezzeggiati anche dalla sinistra moderata, ora questi movimenti sono tornati a far rumore. A esprimere la loro vocazione all’intolleranza.