Avanti di questo passo, e Jerome Powell (nella foto) finirà per assomigliare al Romano Prodi di Corrado Guzzanti. Fermo come un semaforo, col rosso fisso a segnalare che non è ancora tempo di tagliare i tassi d’interesse davanti a un Congresso Usa che, in una sorta di embrassons nous in chiave monetaria, lo sollecitava ieri ad allentare il costo del denaro. A democratici e repubblicani, il padrone di casa di Eccles Building non ha invece concesso nulla. «Crediamo – ha detto – che il nostro tasso ufficiale sia probabilmente al suo picco per questo ciclo di inasprimento. Se l’economia si evolverà come previsto, sarà probabilmente opportuno iniziare a ridurre le restrizioni politiche ad un certo punto quest’anno». Insomma, carte ancora coperte sul momento in cui la ruota girerà in un altro senso.
Con un’inversione di ruoli inimmaginabile solo qualche settimana fa, la Fed sta mutuando non solo quel linguaggio sulla necessità di disporre di ulteriori dati prima di decidere che è proprio della Bce (oggi dal conclave di Francoforte ennesima fumata nera sui tassi), ma anche quella stessa attitudine a mantenere lo status quo malgrado i prezzi al consumo siano al 2,4%, non molto distanti quindi dal target della banca centrale americana. «Vorremmo avere più fiducia sull’inflazione, ne abbiamo un po’ ma ne vogliamo di più», ha affermato Powell in audizione. Al cambio di rotta bisogna quindi pensare «con calma», un «lusso» che la Fed si può permettere grazie «alla forza dell’economia e di un mercato del lavoro che rimane relativamente teso», anche se in febbraio i nuovi posti di lavoro creati sono stati 140mila, contro attese per 150mila.
Il custode del dollaro sa benissimo che l’andamento della politica monetaria ha quest’anno non solo una valenza economica, ma s’incrocia anche con la corsa per la Casa Bianca; eppure, nel difendere gli equilibri fin qui raggiunti dopo le ripetute strette che hanno portato il costo del denaro al 5,25-5,5%, sembra mostrare la stessa resilienza alle pressioni vista durante la presidenza Trump, quando il Tycoon pretendeva un deciso colpo di scure ai tassi. Rispetto ad allora la situazione è diversa, poiché le attuali tensioni geo-politiche potrebbero essere una nuova miccia d’innesco del carovita. Così, dal punto di vista di Powell, è d’obbligo procedere coi piedi di piombo. «Ridurre la politica restrittiva troppo presto o troppo in fretta – ha spiegato ai deputati – potrebbe causare un’inversione dei progressi che abbiamo visto nell’inflazione e, in ultima analisi, richiedere una politica ancora più restrittiva». Cioè avviare un nuovo ciclo di aumento dei tassi, a molti indigesto quando sarà il momento di votare.