Il vero giornalismo non rimastica i social

Il vero giornalismo non rimastica i social

Caro Vittorio, ho collaborato con Il Giornale dal 1993 al 2010 e il giornalismo di allora mi appare lontano come un’era geologica. Sto volando verso i 75 e forse sono legato allo stereotipo del cronista consumatore di suole che, solo dopo aver verificato le notizie, entrava in redazione con l’osso in bocca. Ma pare che stiamo ormai vivendo una bulimica diffusione di notizie sincopate, eiaculate dai cosiddetti social, i cui voraci estimatori non aspettano il pacato approfondimento dei fatti sulla carta stampata (purtroppo già bruciata da internet), e con sicumera emettono sentenze di una stupidità spaziale. A ciò si aggiunge il fatto che stiamo mettendo sul palcoscenico le tragedie con una emotività e una enfasi ormai alla fibrillazione. Dell’omicidio di una povera ragazza (che soltanto gli accalorati retori definiscono femminicidio perché omicidio già significa delitto di una persona, senza specificazione di sesso), siamo riusciti a farne uno spettacolo anziché un doloroso e sobrio racconto di cronaca nera. I minuti di silenzio, i minuti di rumore, le manifestazioni urlanti, le bandiere abbrunate, i dettagli nel sangue e nelle vessazioni subite dalla poveretta, il cinismo di certe domande ai genitori, le femministe arrabbiate che berciano in ogni talk show con la colpevolizzazione tout court di ogni maschio e di un patriarcato del quale non sanno né hanno capito alcunché Vedo sempre più pressappochismo, sicumera, ignoranza, giovani spocchiosi che hanno ancora la bocca sporca di latte ma vogliono giudicare tutto e tutti. Eppure sono ascoltati come oracoli anche in TV E anche noi giornalisti non manchiamo di colpe. Ogni parola, anche la più scontata, se uscita dalla bocca di un politico è soppesata, interpretata, sminuzzata, vagliata, atomizzata, messa in controluce, sezionata, dibattuta in ore e ore di incontri televisivi Forse il dibattito sul sesso degli angeli era più realistico. E scusami se lo dico: ma che palle!

Un abbraccio

Daniele Carozzi

Caro Daniele,

l’emotività e il giornalismo non devono camminare su binari opposti, anzi, penso che, come diceva il grande Dino Buzzati, «la pagina più riuscita sia quella che insieme commuove e fa sorridere». Non ricordiamo le parole, i fatti, i luoghi, i visi, le date, ma ciò che ci resta impresso è ciò che abbiamo provato. Quindi credo che soltanto la notizia trattata con questa partecipazione emotiva, che non deve mai scadere nella spettacolarizzazione o nella simulazione, bensì deve essere spontanea e sobria, possa imprimersi nelle menti dei lettori e sopravvivere alla morte della carta di giornale, che non dura che scarse 24 ore. Quello che ha suscitato l’assassinio di Giulia impressiona e anche ci rassicura poiché ci rendiamo conto che la società è meno spenta di quello che avremmo immaginato, più viva di quanto sospettassimo, meno indifferente rispetto alle nostre convinzioni. Ben venga l’emotività. È proprio l’elemento che ci manca. Ma se ne evitino le strumentalizzazioni politiche, si eviti altresì di costruire, sull’onda dell’emotività stessa, il pregiudizio nei riguardi del maschio, si eviti di fare cattiva informazione parlando di «omicidio di Stato», «patriarcato», «cultura dello stupro» e altre stronzate che stiamo udendo in questi giorni e che sembra vietato contraddire. Sai perché rimpiango quel giornalismo di cui tu scrivi? Proprio perché conteneva una carica emotiva: il cronista vedeva con i suoi propri occhi, annusava l’aria con il suo proprio naso, non stava dietro un computer a raccogliere impressioni di gente che come lui sta dietro un computer e spara giudizi e pure cazzate. E poi, con quello scrigno di sentimenti che aveva provato, andava in redazione a stendere il suo pezzo. Da qui le splendide cronache, ad esempio, dello stesso Buzzati per il Corriere della Sera.

Il mio direttore Nino Nutrizio mi esortava spesso così: «Consuma le suole ma conserva il cervello». Oggi, invece, consumiamo, bruciamo, il cervello ma conserviamo le suole. E questo non è un progresso.

Si tornerà mai più a quel tipo di giornalismo? Penso proprio di no, o almeno ci vorrà tanto, tantissimo tempo perché possiamo renderci conto davvero della deriva che stiamo vivendo. I giornali, che avrebbero dovuto raccontare la realtà, adesso giudicano, pretendono di educare, sollevano sterili polemiche, cui tu ti riferisci, dissezionando sillabe e parole di questo o di quello per montare su casi che dovrebbero scandalizzarci in quanto violerebbero i principi cardine del politicamente corretto. E hai ragione, caro Daniele: è tutto terribilmente noioso. Io stesso sono stufo. Oggi sui giornali si tratta solo politica e si tratta politica persino quando si fa cronaca nera o costume. Tutto è in funzione della politica e della polemica politica. Ma la vita è fatta anche e soprattutto di altro. Si può leggere per giorni e giorni di Lollobrigida che ha fermato il treno ritardatario per scendere e andare a Caivano? Si tende alla ripetitività, a masticare sempre la stessa pappa, a riscaldare sempre la stessa minestra, a girare intorno sempre al medesimo fatterello.

Mi auguro che l’emotività destata dalla barbara uccisione di Giulia Cecchettin si traduca in una evoluzione sul cammino per l’effettiva parità tra uomo e donna, eppure ho il sospetto che, ancora una volta, commetteremo l’errore di perdere una buona occasione e faremo di questa tragedia, che pur ci ha scossi, un motivo per polarizzare ulteriormente il conflitto uomo-donna, che si fonda sul pericoloso e orribile preconcetto, a quanto pare avvalorato proprio dai media, che i maschi facciano tutti schifo, mentre a fare schifo è l’umanità.

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