Una veglia all’alba, preghiere in arabo, opere d’arte per ricordare le 94 vite strappate dal mare. La spiaggia di Cutro rivive la notte del naufragio dell’anno scorso, la tragedia del barchino Summer Love carico di 180 profughi provenienti soprattutto dall’Afghanistan, partito dalla Turchia in direzione Calabria e schiantatosi sulla secca di Steccato di Cutro alle 4.30 del mattino. Una vicenda su cui indaga la magistratura di Crotone ma su cui si allunga anche l’ipotesi di una maxi causa al governo italiano e a Frontex. Tanto basta perché gli avvoltoi dell’opposizione puntino il dito contro Giorgia Meloni, la Guardia di Finanza e la Guardia Costiera, quasi ipotizzando una precisa regia dietro il naufragio.
L’ennesimo frutto amaro della lunga campagna elettorale delle Europee che il governatore calabrese Roberto Occhiuto non raccoglie, sottolineando la solidarietà e il sacrificio dei calabresi che ogni giorno accolgono i tantissimi clandestini che sbarcano e gli sforzi di tutta la comunità del Crotonese che ha aiutato i superstiti della tonnara di Cutro: «Al di là delle sensibilità e delle appartenenze, la politica prenda coscienza che il Mediterraneo non può essere il cimitero dei migranti».
Si muore di buonismo, come confermano i 30mila morti nel Mare nostrum diventato Mare mortum per colpa dei mercanti di uomini che lucrano su un business che ingrassa anche la ‘ndrangheta, con tragedie del mare che si sono succedute con governi di ogni colore, senza che nessuno abbia voluto accusare Palazzo Chigi di chissà quali colpe. «Quella notte è stata una sfortunata combinazione di eventi, una tempesta (im)perfetta», racconta al Giornale uno dei soccorritori intervenuti nelle primissime ore e impegnato per due mesi e mezzo alla ricerca dei corpi, anche con l’aiuto dei droni. «Non si possono lasciare i cadaveri in mare. È la prima regola del mare», sospira Vincenzo Luciano che da quella notte non va più a pescare.
Se fosse successo di giorno si sarebbero salvati tutti o quasi, spiega un altro dei soccorritori. Il barchino era marcio («ma alcuni chiodi erano nuovissimi, segno di una riparazione di fortuna recente»), si è schiantato su una sorta di duna creata dall’affluenza in mare del fiume Cacina e si è impennato, schiacciando tutte le persone verso l’acqua. «Bastava spiaggiarsi 50 metri più in la e anche chi è annegato, appesantito dai pantaloni – a volte doppi – e dai giubbotti che li hanno trascinati a picco si sarebbe salvato». Ecco perché l’indagine della Procura di Crotone si annuncia complessa.
«Basta diatribe e divisioni, tutti sono stati al governo ma nessuno ha trovato una soluzione in Europa», ripete il sindaco di centrosinistra Antonio Ceraso davanti alla glass house, la teca di vetro che contiene i resti dell’imbarcazione. Dalla glass house alla class action il passo è breve. Saranno una cinquantina le famiglie delle vittime e dei superstiti che intenteranno una causa civile risarcitoria contro lo Stato italiano ma anche Frontex per l’omissione di soccorso», annuncia l’afghano Gul Jamshidi, che nel naufragio ha perso il nipotino. Per l’avvocato Stefano Bertone l’esposto sarà presentato a Roma e a Catanzaro «non prima che siano chiuse le indagini penali». Secondo il legale il sistema non ha funzionato perché Frontex «si tiene le informazioni e facilita il compito delle autorità italiane di sbagliare, commettendo un reato gravissimo. Se fossero stati avvisati prima avrebbero commesso lo stesso errore o no?», si chiede Bertone, che intende portare alla sbarra anche i ministeri delle Infrastrutture e dell’Economia ma anche l’Europa. Musica per la sinistra in crisi di consensi.