Ormai è una strage, un martirologio. Riuscire a non vederlo richiede uno sforzo sempre più faticoso, sempre più futile. In Russia, ma anche all’estero se sei russo e hai pestato i piedi del dittatore, e così pure in Bielorussia dove le stesse dinamiche tiranniche e omicide vengono replicate identiche, solo su scala minore, chi sfida il Capo muore. Come ai tempi di Stalin, ormai tornato sinistramente in auge. Figure illustri vengono accomunate nella morte a semisconosciuti la cui fine violenta assume un valore simbolico, diventa un messaggio minaccioso. Lanciato in un momento in cui l’Occidente sembra trasmettere una mancanza di determinazione che Vladimir Putin interpreta immediatamente come debolezza.
Così, dopo l’assassinio di Stato di Alexei Navalny, con cui Putin ha decapitato l’unica vera opposizione politica organizzata al suo regime, e dopo l’esecuzione in Spagna per mano di un commando di un pilota d’elicottero russo che aveva dapprima disertato in Ucraina, arriva la notizia della morte in un carcere bielorusso, all’età di 64 anni, di Igar Lednik. Figura assai meno nota di quella di Navalny, era un giornalista ed ex militante di un partito di opposizione, quello socialdemocratico, ridotto alla clandestinità dopo esser stato messo fuori legge dal dittatore Aleksandr Lukashenko. Lednik stava scontando una condanna a tre anni per «diffamazione» di Lukashenko: in pratica, aveva scritto un articolo critico, e tanto era bastato a privarlo della libertà. In cella, hanno detto i suoi ex compagni di partito, la sua salute era rapidamente peggiorata e basta un’occhiata a qualche sua recente immagine per rendersene conto. Come in Russia, anche in Bielorussia si può uccidere una persona lentamente, giorno dopo giorno, applicando trattamenti disumani in una prigione.
Della Bielorussia, assurta al centro dell’attenzione delle cronache internazionali nell’agosto 2020 per una rivolta di massa contro il regime filorusso, non si è quasi più parlato negli ultimi tempi. In quell’estate di quattro anni fa, centinaia di migliaia di persone erano scese nelle strade della capitale Minsk e delle altre principali città del Paese per protestare contro i brogli che avevano impedito alla leader dell’opposizione democratica, Svetlana Tikhonovskaja, di vincere le elezioni presidenziali. Con tipica arroganza, Lukashenko aveva fatto diffondere risultati ufficiali totalmente falsificati che gli attribuivano addirittura l’80 per cento dei voti, tanti quanti i sondaggi davano invece alla sua sfidante. Per mesi, ogni sabato, grandi folle scesero pacificamente nelle strade per protestare, ma nulla poterono contro la brutalità della polizia e dell’élite dell’esercito, fedeli al dittatore.
Lukashenko ricevette il sostegno concreto di Putin, che inviò militari, poliziotti addestrati a reprimere le proteste di piazza e perfino giornalisti incaricati di sostituire quelli bielorussi che si erano rifiutati di diffondere le notizie false imposte dal regime alla televisione e alla radio di Stato. Seguirono violenze crescenti, omicidi mirati, arresti, esili forzati. La stessa Tikhonovskaja che aveva preso il posto del marito Serhej gettato in carcere affinché non partecipasse alle elezioni dovette rifugiarsi in Lituania, da dove tuttora guida un’opposizione impotente. Perfino la celebre scrittrice e premio Nobel Svetlana Aleksievic, minacciata da ceffi in giubbotto di cuoio fin sotto casa sua, si è risolta a fuggire in Germania.
In pochi hanno continuato a resistere alla riduzione della Bielorussia a Stato vassallo di Mosca, immagine di cosa diventerebbe l’Ucraina se si arrendesse, e fra questi Igar Lednik. Fino a ieri.