«Progressi impossibili» nei colloqui in corso al Cairo per gli ostaggi e la tregua, è l’analisi del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che decide di non inviare una delegazione in Egitto «finché Hamas non cambierà le sue richieste deliranti», tra cui il rilascio di un numero eccessivo di detenuti palestinesi. La fermezza è parte decisiva della strategia di Israele, accerchiata da miliziani nemici che ieri hanno provocato l’ennesima escalation militare al confine nord di Israele. Dal Libano, l’incessante lancio di razzi di Hezbollah – almeno 11 missili Grad ieri – ha colpito il quartier generale del Comando nord israeliano, a Safed, uccidendo una soldatessa israeliana, Omer Sarah Benjo, 20 anni, e ferendo altri militari e civili. Le forze armate israeliane, per rappresaglia, hanno condotto «una vasta ondata» di attacchi contro la Radwan, l’unità d’élite dei miliziani filo-Iran, provocando la morte di 3 civili libanesi e di un membro di Hezbollah.
È magro – o peggio sempre più preoccupante – il bilancio del 131esimo giorno di guerra in Medioriente. Il fronte libanese si infiamma e l’Onu denuncia «un’escalation pericolosa», proprio mentre si tratta per il rilascio degli ostaggi a Gaza e per spegnere le ostilità fra Hezbollah e Israele. «Questa è guerra, non sono attacchi intermittenti», commenta il «falco» del governo Netanyahu, il ministro Ben Gvir, convinto che Hezbollah vada trattato come Hamas. La Francia si era spesa nelle scorse ore per consegnare una proposta di accordo a Beirut per placare gli scontri al confine tra Israele e Libano. Ma la proposta è stata rigettata da Hezbollah, che non discuterà «fino a che Israele non fermerà l’aggressione a Gaza».
Il conflitto nella Striscia è ormai la ragione e il pretesto dei focolai nell’area, nonostante il pressing internazionale per una de-escalation, che ieri ha visto protagonisti il presidente francese Macron e il turco Erdogan. Macron ha chiamato Netanyahu chiedendo di evitare un’escalation in Libano e nel Mar Rosso e invocando lo stop delle operazioni a Gaza, dove la situazione umanitaria e il numero di vittime, oltre 28mila, sono «intollerabili». Erdogan è stato in visita in Egitto – sede dei colloqui mediati tra Israele e Hamas – e ha incontrato il presidente Al-Sisi dicendosi pronto «a cooperare per mettere fine al bagno di sangue a Gaza e aprire una nuova pagina».
Eppure l’obiettivo tregua non è ancora realtà, nonostante gli sforzi incessanti degli Stati Uniti, con i mediatori di Egitto e Qatar, per trovare un’intesa sul rilascio dei 130 ostaggi ancora a Gaza. Israele ha deciso che non invierà una delegazione al Cairo se non ci saranno progressi sulle proposte di Hamas, a cui anche il presidente dell’Anp Abu Mazen chiede di trovare «rapidamente un’intesa». Quella di Israele potrebbe normale strategia da trattativa, tanto che l’ambasciatore americano in Qatar, Timmy Davis, parla ancora di «cauto ottimismo» sui negoziati. Netanyahu preme su Hamas, avvertendo che «ci sarà un’azione potente a Rafah». E i capi di Cia e Mossad hanno lasciato la capitale egiziana con un nulla di fatto. Chi ha perso la pazienza è il Forum delle Famiglie degli ostaggi, che accusa il premier di abbandonare i rapiti. Circa cento familiari sono all’Aja per un ricorso alla Corte penale internazionale (il tribunale che ha emesso il mandato d’arresto per Putin sull’Ucraina), accusando Hamas di crimini di guerra per le atrocità del 7 ottobre.