Netanyahu si rifiuta di ascoltare gli avvertimenti della Casa Bianca e ordina all’esercito piani di evacuazione da Rafah. Joe Biden è stato durissimo nelle ultime ore, ha definito «eccessiva» la risposta di Israele al 7 ottobre e ha già preso le distanze dall’annuncio di Israele «pronto ad avanzare» sulla città nel sud della Striscia di Gaza, al confine con l’Egitto, dove sono ammassati in condizioni disperate circa 1.8 milioni di palestinesi sfollati a causa della guerra. Ma Israele tira dritto, vuole colpire l’area per fare pressione sui terroristi, convinto che qui si trovino ancora, insieme al grande capo di Hamas nella Striscia, Sinwar, sei leader del gruppo da eliminare o catturare.
Il premier israeliano sembra ignorare gli ultimi richiami di Washington, preoccupata che colpire un’area così densa di sfollati sarebbe «un disastro», e non si cura della presa di distanza degli Usa, chiari nell’annunciare di «non sostenere l’operazione militare a Rafah». Impossibile fermarsi, è il senso dell’ultimo annuncio del capo di governo israeliano. Questo perché – spiega Netanyahu – «è impossibile raggiungere l’obiettivo della guerra, eliminare Hamas, lasciando 4 battaglioni del gruppo» nella città, cruciale per il passaggio di aiuti umanitari ai civili ma anche per foraggiare Hamas, tramite quegli aiuti.
Nonostante la diplomazia sia al lavoro, le trattative per la tregua e il rilascio dei 136 rapiti sono in stallo anche a causa del difficile contesto. L’Egitto ha rafforzato i confini e il presidente palestinese Abu Mazen ha accusato Israele di voler «cacciare i palestinesi dalle loro terre» con una «politica distruttiva» di cui anche gli Usa sono «pienamente responsabili». Il leader dell’Anp si è fatto portavoce della sua gente: «Il popolo palestinese non accetterà di essere sfollato con forza dalla propria patria».
Un clima pesante. Per fare pressing sui vertici dell’ufficio politico di Hamas, oltre che su Israele, in modo da arrivare a una tregua, gli Stati Uniti e il Qatar starebbero lavorando, secondo la tv secondo Al-Arabiya, a un piano per espellere i leader di Hamas da Doha, tra cui Ismail Haniyeh, Moussa Abu Marzuk e Khaled Mashal, che in Qatar conducono esistenze dorate lontane dal conflitto e sono meno disposti a concessioni. Nessun altro dettaglio si conosce sulla trattativa, anche se «la decisione se assassinare la leadership di Hamas all’estero è una questione di politica, non di capacità», dice alla tv israeliana Kan11 l’ex capo del Mossad, Yossi Cohen.
Chi attende con angoscia sono le famiglie dei rapiti, che hanno chiesto un nuovo incontro con il Gabinetto di guerra per «sapere se l’autorità di negoziare deve essere trasferita ad altri partiti che si considerano impegnati a salvare la vita degli ostaggi». Un avvertimento politico a Netanyahu. Eppure nelle stesse ore, a fotografare l’altra anima dell’opinione pubblica israeliana, si è svolto a Gerusalemme, di fronte agli uffici del governo, un raduno di gruppi di destra contrari ai negoziati con gli islamisti per il rilascio dei sequestrati.
Il ministro della Difesa israeliano Gallant ha informato ieri il segretario alla Difesa americano Austin degli sviluppi del conflitto, che agita l’intera regione. Il capo del comando nord dell’Idf, il generale Ori Gordin, ha alimentato intanto i timori di un’escalation, avvertendo che le Forze armate stanno continuando «a prepararsi per l’espansione della guerra e l’offensiva contro Hezbollah», la milizia filo-Teheran a cui il ministro degli esteri iraniano, dal Libano, ha ribadito sostegno. La Siria ha annunciato di aver intercettato due droni israeliani su Damasco. E le forze armate statunitensi hanno condotto nuovi attacchi aerei contro i ribelli Houthi dello Yemen distruggendo lanciamissili e droni armati che potevano colpire le navi nel Mar Rosso.