Mentre il carrozzone delle primarie Usa fa tappa in Nevada, le principali novità circa le prossime elezioni Usa riguardano ancora una volta le peripezie giudiziarie di Donald Trump. Soltanto ieri, infatti, la Corte d’Appello del Distretto di Washington ha dichiarato l’impossibilità da parte dell’ex presidente di invocare l’immunità presidenziale nel processo che lo vede imputato per le interferenze elettorali del 2020. Ma questa, assieme al “caso Georgia”, non è l’unica questione a pendere ancora sul futuro dell’ex presidente: restano in corso i procedimenti per il caso di hush money (New York, prossimo appuntamento previsto per il 25 marzo), i file top secret ritrovati a Mar-a-Lago (Dipartimento della Giustizia, inizio del processo il 20 maggio) e quello per frode (New York, con aggiornamenti previsti proprio per oggi 7 febbraio).
La Corte Suprema ha nelle mani il futuro di Trump
Il ruolo di cui sarà investita la Corte Suprema degli Stati Uniti nelle prossime settimane avrà un’importanza storica. Il massimo organo costituzionale americano, infatti, dovrà esprimersi su due elementi fondamentali: l’incandidabilità eventuale di Donald Trump, sui cui decidere entro il Super Tuesday; e la sentenza di ieri, visto e considerato che il team di avvocati del tycoon impugnerà la sentenza del distretto di Washington. Questa, infatti, ha costretto Trump a muoversi rapidamente, contando sulla maggioranza conservatrice della Corte. Altrimenti, il caso sarebbe riavviato all’interno dello stesso tribunale: la rapidità, in questo caso, è fondamentale su entrambi i fronti. I difensori dell’ex presidente, infatti, hanno spinto il più possibile per ritardare il procedimento, arrivando agevolmente alle prossime elezioni: una vittoria di Trump alla Casa Bianca, infatti, metterebbe nelle mani di The Donald l’aurorità di ordinare al suo nuovo procuratore generale di archiviare le cause federali a suo carico, così come di emettere una sentenza.
Ma quali sono le opzioni sul tavolo? La sentenza di ieri non rimanda in autiomatico il caso alla Corte d’Appello e fornisce la facoltà a Trump (entro il 12 febbraio) di chiedere alla Corte Suprema di sospendere la decisione. Il magnate potrebbe anche chiedere all’intera Corte d’Appello di prendere in considerazione le sue richieste di immunità, ma questo non impedirebbe al caso di tornare in tribunale e procedere in autonomia. Sta di fatto che la Corte Suprema, non può essere trascinata in una sentenza frettolosa vista la sua portata e l’influenza che avrà sui futuri presidenti nell’esercizio dei propri poteri. Inoltre, non va dimenticato che la Corte ha sulle proprie spalle altri casi rilevanti per le elezioni Usa come quello del Colorado, dove indipendenti e repubblicani voglio Trump fuori dalle schede elettorali delle primarie. Al momento, il vero problema è l’assenza di un calendario, nonostante la giudice Chutkan avesse stabilito un improbabile scadenza al 4 marzo. Se la Corte Suprema, dunque, dovesse accogliere la richiesta di Trump tutti gli occhi saranno puntati sulla sua agenda.
L’ipotesi del 14mo Emendamento: si applicherà al caso di Trump?
Le due questioni, incandidabilità e rinuncia all’immunità, sebbene seguano due percorsi differenti, sono consequenziali fra loro. Sull’incandidabilità ai sensi del 14mo emendamento la Corte Suprema ha programmato una sessione speciale proprio per discutere dell’applicazione dell’emendamento al caso specifico e, dunque, ai fatti di Capitol Hill su cui alcuni stati hanno puntato per escludere Trump dalla corsa alle primarie. La Corte non si è mai occupata della sezione 3 dell’emendamento e ora i giudici dovranno barcamenarsi, ognuno per portare acqua al proprio mulino, con l’intera storia costituzionale americana alla ricerca di precedenti simili.
Con un’ulteriore complicazione: chi si aspetta che anche il mondo legale americano si divida secondo linee partigiane, è in errore. Alcuni fra i più accesi sostenitori della squalifica di Trump sono teorici legali conservatori, assieme ad ex governatori e membri del Congresso che hanno perfino redatto un memoriale per avvalorare questa tesi. Insomma, per paradosso, Joe Biden è rimasto fra i pochi a dichiarare pubblicamente che Trump sarà senza dubbi il suo sfidante. Nonostante questo, una fronda di fedelissimi resiste: Più di 60 esponenti del Partito repubblicano hanno aderito a una risoluzione presentata ieri dai deputati Matt Gaetz ed Elise Stefanik, in cui si afferma che l’ex presidente Donald Trump “non si è macchiato di insurrezione o ribellione contro gli Stati Uniti“.
Sebbene sia difficile che i casi nei quali è coinvolto Trump giungano a sentenza quest’anno, la possibilità di una condanna non è comunque da escludere a priori. Ma cosa accrebbe in questo caso? Trump potrebbe comunque fare campagna elettorale da dietro le sbarre. La costituzione Usa non vieta, infatti, la possibilità di candidarsi dal carcere e, dunque, perfino di essere eletti. E per di più, questo precedente si è già verificato: a proposito del socialista Eugene Debs, arrestato nel 1918 con l’accusa di aver violato il Sedition Act, e in corsa alle presidenziali due anni dopo dal penitenziario federale di Atlanta, in Georgia, dove rimase rinchiuso fino al 1921. Sebbene il ruolo del perseguitato, del pasionario che guida il suo popolo dal carcere, sia uno strumento potente nelle mani dell’inarrestabile The Donald, l’immagine del candidato in manette non solo si addice poco al Gop, ma è un opzione che i Repubblicani preferirebbero evitare senza ombra di dubbio. In gioco c’è il sacro meccanismo del pendolo. Senza dimenticare l’immagine degli Stati Uniti in sfacelo. In questo caso, soltanto il Gop potrebbe disconoscere il proprio candidato, prendendone le distanze.