Certo, assolutamente. Forse. Ora Ursula Von der Leyen dice che l’Ue deve «fidarsi di più di loro», degli agricoltori. Ma allora perché quando nel 2019 fu decisa la neutralità climatica entro il 2050, imponendo sacrifici alla categoria, contadini e allevatori non furono consultati? E perché la grande distribuzione (Gdo) ha invece sempre avuto emissari a Bruxelles, per fare lobbying affinché non si scrivesse mai una legge europea per tutelare i prezzi dei prodotti all’origine?
Due domande e due facce della crisi dei «trattori». Un comparto che, specie negli ultimi 4 anni, si è visto esposto pure alla concorrenza sleale extra-Ue, e sempre meno tutelato; fino a veder sprofondare floride piccole imprese spesso a gestione familiare sotto la soglia della povertà. E sempre col dito puntato addosso dagli ecologisti.
L’Ue non ha fatto una piega quando crescevano i prezzi dei fertilizzanti e dei mangimi, neppure dopo l’invasione russa dell’Ucraina; crollavano i guadagni dei contadini mentre gli incassi della grande distribuzione restavano intatti, talvolta ingigantendosi. Anzi il responsabile del Green Deal europeo, l’olandese Frans Timmermans, fece le barricate quando il Commissario all’Agricoltura, Janusz Wojciechowski, provò a chiedere maggiori aiuti per la categoria. Rispose, Timmermans: «Credete davvero che ci sarà un collegio elettorale negli Stati membri che dirà diamo più soldi all’agricoltura?». Concluse, il papà del Green Deal, che non ci sarebbe stato neppure uno, tra i 27, a sostenere l’erogazione di più fondi per l’agricoltura.
Toh, è successo. Sconfessato lui, e il suo piano a tappe forzate imbevuto di ideologia. Quello con cui prima si è chiesto ai contadini di non inquinare il suolo e l’aria, mettendo al bando sempre più pesticidi; poi di non coltivare una parte dei terreni, in cambio di sussidi.
Quella legata al maggese, nelle intenzioni, era ed è una misura per rendere sostenibile l’agroalimentare. Come dire: Bruxelles e i suoi uffici ne sanno più di chi lavora la terra 7 giorni su 7. Intanto col pretesto dell’inflazione crescente, e garanzie spesso disattese dai grandi marchi – la Gdo prometteva prezzi competitivi nei supermercati e dunque potenzialmente un vantaggio per i consumatori – si indeboliva ancor di più una filiera già provata. Impoverita, snaturata. Ed infine esposta anche alla concorrenza sleale dal Sudamerica (carne e verdura). Poi uova e pollame ucraino: che da maggio 2022 hanno invaso i mercati dei 27 senza le stesse tutele chieste dall’Ue agli agricoltori comunitari. L’anno scorso, il picco: 230 mila tonnellate di polli importati nell’Ue (+40%). Bruxelles pensava di aiutare Kiev. Dazi tolti senza saper che a guadagnarci è stato soprattutto un oligarca. «Eccessi che ci destabilizzano», ha ammesso Macron, che ora cambia pelle e fa le barricate sul Mercosur (l’accordo commerciale con Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay che il tedesco invece Scholz difende). Mentre i prefetti dei 27 si candidano a diventare amici degli agricoltori e non più braccio armato della burocrazia, pronta a sospendere licenze e multare chi ha il torto d’avere una bestia da cui non esce fuori un ricavo ma una perdita.
Ma forse nessuno è esente da colpe. L’Ue certo ne ha molte, in questa crisi. S’è data regole stringenti in casa – imponendole – senza pretendere dai mercati extra-europei il rispetto dei medesimi criteri di produzione e allevamento in vigore nei 27: né sanitari, né sul benessere degli animali, invece sotto stretta sorveglianza nell’Ue. Altrimenti sono multe, sequestri, sospensione delle attività. Scelta kamikaze, che ha reso contadini e allevatori cittadini di serie B, imprenditori fregati dallo stesso organismo che avrebbe dovuto tutelarli.
Nel mezzo, la Pac, Politica agricola comune: a cui neppure le sigle di categoria si opposero. Anzi. Dopo il voto del 23 novembre 2021 erano tutti d’accordo con la Pac, oggi bersaglio del movimento contadino. Cia (oltre 900 mila iscritti in Europa) e Coldiretti parlarono di importante riconoscimento. Idem Confagricoltura. C’è infatti un altro tema caldo, nella protesta. La rappresentanza. In ogni Paese ci sono state (e ci sono) sempre più iniziative autonome di gruppi, singoli leader. Fortissime divisioni e infiltrati in cerca di passerelle come l’ex esponente romano di Forza nuova Castellino. Facce non sempre uscite dalle stalle.
Ma che attenuante hanno gli esecutivi, come quello francese? Nessuna. Infatti il neo premier Attal ha ammesso errori, sull’ecologia. Si è schierato con gli agricoltori e le loro ragioni anche se Macron ha preferito a lungo strizzare l’occhio a un’onda green: quella in cui criticare Greta Thunberg (e le conseguenti scelte Ue) equivaleva a mettersi un bersaglio sulla schiena. Parigi ha infine fatto marcia indietro sui pesticidi ancor prima del mea culpa di ieri di Von der Leyen. Ha messo mano al portafoglio (400 milioni di agevolazioni) e trasformato i prefetti francesi in guardie svizzere di controllo della grande distribuzione, poiché la loro legge Egalim a tutela degli agricoltori è stata aggirata da centrali d’acquisto piazzate in Belgio, Olanda, Spagna.
Altro nervo scoperto, il nodo pensioni. Parigi vuol considerare i migliori 25 anni di attività agricola, perché ci sono periodi che ai contadini va male e si versa poco. Si discute dei passaggi di proprietà, light, da portare a costo zero se l’azienda agricola resta in famiglia. E di cambio di paradigma sulla tutela effettiva del Made in…. Fatto, non lavorato in. Ma talvolta i governi sono stati anche il fusibile della protesta. A dicembre quello tedesco propose un bilancio 2024 bocciato dalla Corte che evidenziò un buco di 60 miliardi. A rimetterci, con pesanti tagli, i contadini. Scholz disse: taglio ai sussidi agricoli ed eliminazione dei principali privilegi fiscali, tra cui quello sul gasolio (invece rimasto scontato in Italia per scelta del governo Meloni). Trattori arrivati anche a Roma, e qui chiedono il ripristino dell’esenzione Irpef, in un puzzle della rabbia e dell’orgoglio contadino pronto a dare il colpo di grazia all’ideologia.