Qualche settimana fa ho partecipato a Milano a un bell’incontro sul tema «Le conseguenze economiche e politiche delle guerre», organizzato dalla Fabi, il maggior sindacato dei bancari. A un certo punto una esperta di finanza ha spiegato il motivo per cui le Borse di tutto il mondo sono crollate al momento dell’invasione dell’Ucraina, ma poi si sono assestate, fino al punto di risalire e tornare al segno più. Vado a memoria, ma il suo discorso è stato, in sintesi, il seguente: «I mercati», ha detto, «hanno bisogno di certezze. Nel momento in cui c’è la certezza che la guerra continua, al punto da diventare un fatto permanente, insomma nel momento in cui anche la guerra diventa un fattore di stabilità, le Borse reagiscono con fiducia».
Ho ripensato a queste parole poche sere dopo quando, partecipando a Parma a un altro dibattito sulla guerra con il cardinale Matteo Zuppi e l’inviato de La Stampa Domenico Quirico, quest’ultimo ha detto: «Per secoli, ogni guerra aveva un suo inizio, un suo svolgimento e una sua fine, che coincideva con la vittoria dell’uno o dell’altro dei contendenti e con un trattato di pace che stabiliva le condizioni fra vincitori e vinti. Oggi, invece, dobbiamo abituarci a guerre che non finiscono mai. Il mondo è pieno di conflitti destinati a protrarsi a tempo indeterminato».
Uomo del secolo, anzi del millennio scorso, ho ripensato alle conseguenze economiche e politiche delle guerre per come le avevo studiate sui libri, e di questi libri me ne sono venuti in mente due straordinari, che consiglio a tutti di prendere o riprendere in mano, se hanno passione per la storia. Di uno di questi due libri ricorre proprio adesso il settantesimo anniversario dall’uscita: Tempo di vivere, tempo di morire, di Erich Maria Remarque (1898-1970), scrittore tedesco nonostante il cognome francese, autore anche del celeberrimo Niente di nuovo sul fronte occidentale. Il secondo libro è Il mondo di ieri dell’austriaco Stefan Zweig (1881-1942). Credo che due libri di questo genere, di grande valore narrativo, possano rendere perfettamente l’idea di quali siano le conseguenze economiche (e politiche, a seguire) di una guerra; o almeno di una guerra del tipo che avevamo conosciuto, e che come dice Quirico probabilmente non esiste più.
Il mondo di ieri è il ricordo, e il rimpianto, della magnificenza dell’Impero Austro-ungarico, miracolo di convivenza fra popoli diversi, di tolleranza religiosa, di efficienza amministrativa, di benessere economico, di arte e di cultura. Zweig scrive questo libro dal 1939 al 1941 prima negli Stati Uniti e poi in Brasile, in fuga dalle persecuzioni razziali. Ma non ne vedrà la pubblicazione: si suiciderà la notte tra il 22 e il 23 febbraio 1942 insieme alla sua seconda moglie. Lasciò un biglietto: «Saluto tutti i miei amici! Che dopo questa lunga notte possano vedere l’alba. Io, che sono troppo impaziente, li precedo».
«Sono nato», è scritto nella prefazione de Il mondo di ieri, «nel 1881 in un grande possente impero, nella monarchia degli Asburgo, ma non si vada a cercarla sulla carta geografica: essa è sparita senza traccia. Sono cresciuto a Vienna, metropoli supernazionale bimillenaria, e l’ho dovuta lasciare come un delinquente prima che essa venisse degradata a città provinciale tedesca () anche la vera patria che il mio cuore si era eletta, l’Europa, è perduta per me da quando per la seconda volta, con furia suicida, si dilania in una guerra fraterna». È il racconto di uno choc inaudito: l’Impero in cui era cresciuto, e che pareva eterno, non c’è più, sconvolto da eventi succedutisi con una rapidità mai vissuta prima da alcuno: «Che cosa hanno veduto mio padre e mio nonno? Ciascuno di essi ha vissuto un’unica volta, un’unica esistenza dal principio alla fine (). Han vissuto sempre nello stesso paese, nella stessa città e quasi sempre perfino nella stessa casa». Per la sua generazione, invece, tutto si è stravolto. Il mondo di ieri si apre con la descrizione «dell’età d’oro e della sicurezza» che precedette la Prima guerra mondiale. «Nella nostra monarchia austriaca quasi millenaria tutto pareva duraturo e lo Stato medesimo appariva il garante supremo di tale continuità. () La nostra moneta, la corona austriaca, circolava in pezzi d’oro e garantiva così la sua stabilità. () Ognuno sapeva quanto possedeva (). Ogni famiglia aveva un bilancio preciso, sapeva quanto potesse spendere. () Tutto nel vasto impero appariva saldo e inamovibile e al posto più alto stava il sovrano vegliardo; ma in caso di sua morte si sapeva (o si credeva di sapere) che un altro gli sarebbe succeduto senza che nulla si mutasse nell’ordine prestabilito».
Poi scoppia la guerra («alla quale nessuno credeva»), Zweig va in Svizzera e torna in patria solo dopo la resa del suo Impero, mai sconfitto militarmente – non c’erano truppe nemiche all’interno dei suoi confini – ma collassato economicamente, imploso. E gli basta quel viaggio in treno per capire la drammatica trasformazione: «Ci invitarono a passare dalle lucide e pulitissime carrozze elvetiche in quelle austriache. Bastava mettervi piede per sapere quel che era accaduto in quel paese. I ferrovieri che indicavano i posti avevano l’aspetto smunto e affamato ed eran tutti cenciosi, con uniformi sdrucite (). Tutte le cinghie per rialzare i finestrini eran state tagliate via, poiché ogni pezzetto di cuoio valeva un tesoro. () Le lampadine elettriche eran tutte rotte o rubate (…)». Al di là di quei finestrini rotti, il fantasma dell’Impero che era stato. Le conseguenze politiche saranno poi la miseria, l’umiliazione di un popolo, il rancore, la voglia di rivincita, la vittoria di Hitler.
Tempo di vivere, tempo di morire, Seconda guerra mondiale, non è dissimile. Il soldato della Wehrmacht Ernst Graeber torna a casa dal fronte russo, in licenza, dopo due anni di combattimenti, sogna di riabbracciare i genitori e s’immagina di ritrovare la Germania che aveva lasciato: forte, ordinata, dominante. Ma quando arriva al suo paese, Warden, non trova più nulla di quello che c’era. «La città che aveva conosciuto fin dall’infanzia era talmente mutata che non si raccapezzava. Era solito orientarsi con le facciate delle case, ma non c’erano più». Non trova i genitori e non trova più neanche se stesso: incontra un po’ d’acqua piovana e «in quello specchio vide la propria faccia e gli parve quella di un altro». Per chi e per cosa aveva combattuto il soldato Graeber? E che ne sarà, dopo la guerra, del popolo tedesco? Con Elizabeth Kruse, la ragazza che incontra durante la licenza e sposa, immagina i viaggi di quando tutto sarà passato. Ma dove andare? I tedeschi hanno invaso la Francia e bombardato l’Inghilterra. In Olanda? «Abbiamo aggredito l’Olanda, abbiamo distrutto Rotterdam senza avvertimento… Temo, Elizabeth, che non ci lasceranno entrare nemmeno là».
Anche la letteratura, a volte, sa raccontare le conseguenze economiche, oltre che umane, di una guerra. A meno che non si pensi che quelle eran cose del passato, che oggi appunto ci si abitua anche ai conflitti permanenti, e che oltre alle stagioni non ci son più neanche le guerre di una volta.