Enrico Fermi nasce a Roma nel 1901. A 28 anni ottiene la prima cattedra di Fisica teorica in Italia, a Roma. Dopo avere brillato alla Normale di Pisa arriva nella capitale e all’Istituto di Fisica Orso Mario Corbino si accorge subito che ha doti eccezionali. Fermi le mette a frutto prima in Italia, all’Istituto di via Panisperna dove lavorano, con lui, Edoardo Amaldi, Franco Rasetti, Emilio Segrè, Bruno Pontecorvo, il chimico Oscar D’Agostino e Ettore Majorana: insieme pongono le basi della fisica dell’atomo. Poi completa l’opera attraversando l’Atlantico: è il 1938 e, per evitare che la moglie Laura sia vittima delle leggi razziali, si trasferisce in America. Prima di imbarcarsi ci sono ancora due tappe: una a Stoccolma, per ritirare il Nobel per la Fisica, e una a Copenaghen, per andare a trovare il collega Niels Bohr. L’Accademia di Svezia lo premia per «l’identificazione di nuovi elementi della radioattività e la scoperta delle reazioni nucleari mediante neutroni lenti»; in America, prima alla Columbia e poi a Chicago, conduce i primi esperimenti di fissione nucleare, costruisce il primo reattore (la «pila di Fermi») e lavora al Progetto Manhattan, che porta alla realizzazione della bomba atomica per fermare Hitler.
Fermi ha segnato in maniera cruciale sia la fisica teorica sia quella sperimentale per quanto riguarda l’atomo. Oggi i ricercatori sono iperspecializzati ma, come dice Antonio Ereditato, fisico delle particelle che da trent’anni si occupa dei neutrini, Fermi non era così. «Nella sua biografia, David Schwartz lo ha definito l’ultimo uomo che sapeva tutto ed è vero: Fermi era uno scienziato a tutto tondo, non definibile dalle categorie moderne. Era un Leonardo da Vinci passato attraverso Galileo e l’invenzione del metodo scientifico: conosceva tutta la fisica benissimo, poteva insegnare qualsiasi argomento. Era un fisico universale». Ereditato, che dopo molti anni a Berna, dove ha diretto il Laboratory for High Energy Physics, oggi insegna Fisica delle particelle proprio all’Enrico Fermi Institute di Chicago, si è «ispirato» a Fermi anche nei suoi saggi più recenti: Zitto e calcola! (Eurilink), che si rifà proprio al «metodo Fermi» e Lettera agli scienziati del futuro, pubblicato dal Saggiatore, che riprende la visione di Fermi della scienza come missione di insegnamento. «Lui diceva che esistono tre categorie di fisici: gli onesti lavoratori della scienza, che si impegnano quotidianamente e ottengono dei buoni risultati; le persone che svettano, dando contributi fondamentali all’avanzamento della scienza, fra le quali sottintendeva di porre anche se stesso; i geni, come Newton e Majorana, che all’epoca era un suo giovane studente. Certamente, oggi noi definiremmo Fermi un genio, anche se lui non si poneva in questa categoria». Com’era il genio Fermi? «Era fatto di metodo, di lavoro, di sudore e di impegno: era un Sinner, non un Maradona come Majorana…». E, da grande lavoratore, Fermi elabora un «metodo» che è tuttora utilizzato dagli scienziati: «È un modo, molto moderno e utile, per affrontare un problema. Quando doveva capire qualcosa, Fermi non cominciava in modo sistematico, diciamo dalla A alla Z, bensì faceva dei conticini a mano, ragionando per ordini di grandezza: e, in dieci minuti, comprendeva il 90 per cento del problema. Poi magari, per il restante 10 per cento, ci volevano due anni di analisi minuziose… Ma lui era bravissimo a fare quei calcoli e spesso erano sufficienti». Esempio clamoroso e leggendario: dopo l’esplosione della prima bomba sperimentale progettata a Los Alamos, Fermi spezzò della carta e osservò la velocità a cui i coriandoli venivano trasportati dal vento. E, in pochi minuti, stimò la potenza della bomba. Se non è genialità… Anche se il Nobel gli fu dato, diciamo così, «per errore», o meglio «per qualcosa che non aveva scoperto» spiega Ereditato; perché, in realtà, anziché avere trovato dei nuovi elementi transuranici «senza saperlo aveva fatto la prima scissione del nucleo atomico, indotta da neutroni. E questa era la prova che, dalla scissione del nucleo, si potesse ottenere energia in quantità enormi».
Ed ecco che le scoperte e il genio di Fermi arrivano direttamente alla Storia e a noi: «Era ciò che serviva, da una parte per poter realizzare i reattori per la produzione di energia, come quelli che usiamo ancora oggi, e per le applicazioni nella fisica medica, contro i tumori; e, dall’altra, per capire i meccanismi di come funziona l’enorme energia del nucleo che, purtroppo, può essere usata anche per le armi». Non si può sottostimare il ruolo di Fermi nella costruzione della bomba: «Il tanto osannato Oppenheimer era un grande leader, un organizzatore straordinario, ma senza Fermi non sarebbero state costruite né la pila né la bomba». Il primo reattore è pronto nel 1942. «La pila atomica – spiega Ereditato – è stata una scoperta funzionale all’uso dell’energia atomica per scopi sia civili, sia militari: i due sviluppi, quello distruttivo e quello dell’energia tenuta sotto controllo, sono correlati».
Fermi non ha fatto «solo» questo: «Ha creato una scuola di fisici, perché lui amava moltissimo insegnare: aveva il piacere della trasmissione del sapere. E anche la scuola italiana di fisica, portata avanti da Edoardo Amaldi, è nata sotto l’egida di Fermi: siamo tutti suoi nipoti». E poi ci ha lasciato «tanto altro»: «Una comprensione unica del mondo atomico: ha inventato la statistica di Fermi; ci sono delle particelle chiamate fermioni in suo onore; ha battezzato il neutrino; ha stabilito i principi del decadimento beta. Tutte scoperte fondamentali nella conoscenza della fisica, che lo hanno reso immortale. E negli ultimi anni pensava a briglia sciolta: come funzionano le stelle, i raggi cosmici, i calcolatori…». È morto a Chicago a 53 anni, il 28 novembre di settanta anni fa. Se «genialità, lungimiranza e ispirazione» le ha donate alla scienza, all’Italia ha lasciato anche il tesoro del suo nome: «Purtroppo – dice Ereditato – risuona più negli Stati Uniti che da noi. Dopo il Cern, il più grande laboratorio di fisica delle particelle al mondo, il Fermilab, è dedicato a lui, così come l’Istituto dove insegno a Chicago. È una gloria nazionale, come Leonardo e Muti, anche se non glorificato abbastanza».