Entri a Montecitorio e ti accorgi che sulla riforma istituzionale, quella che dovrebbe introdurre il roboante «premierato», il Parlamento è disorientato. «Più che un premierato – sospira Giorgio Mulè, vicepresidente forzista della Camera – è un conglomerato all’insegna dello famo strano». Una battuta ripresa di sana pianta da un film di Carlo Verdone, Viaggi di nozze, che ritrovi sulla bocca di un altro azzurro, il figlio d’arte Alessandro Colucci, che dopo il padre già parlamentare socialista e poi azzurro, continua ad assistere alle prove di una riforma che dopo quarant’anni di tentativi è stata ribattezzata a ragione «l’incompiuta». «Sì, siamo a lo famo strano per questo penso che il testo sarà semplificato», spera.
Questa volta Giorgia Meloni punta davvero molto sulla madre di tutte le riforme. Ed è convinta di farcela contando su quel 57% di italiani che secondo un sondaggio – sempre presente sulla sua scrivania – vogliono decidere in prima persona chi deve governare il Paese senza ribaltoni o governi tecnici. Ambizione più che giusta. Nessuno nega, però, che all’inizio ci sia stata un po’ di confusione nel tentativo di coinvolgere le opposizioni e di mettere in piedi una maggioranza larga. Intanto perché la ministra per le riforme istituzionali, Elisabetta Casellati, ha un temperamento poco elastico. «Quando era al Csm – racconta Enrico Costa, ex forzista finito alla corte di Carlo Calenda – litigò con l’autista che gli avevano assegnato e obbligò la segretaria a starle sempre accanto perché doveva dare le indicazioni al poveretto che era al volante visto che non gli rivolgeva la parola». Poi c’è stato il problema di trovare un compromesso in consiglio ministri per mettere d’accordo le diverse anime. «Me l’hanno rovinata», si è lamentata in confidenza la Casellati con un deputato forzista veneto.
Eh sì perché il principale problema è stato quello di raccogliere sulla riforma un consenso generale o, almeno, il più ampio possibile. Prima con l’opposizione. Invano visto che da quelle parti hanno già innalzato le barricate. «Volevano le elezione diretta – si lamenta il piddino Andrea Orlando – e allora potevano proporre il semipresidenzialismo alla francese o il presidenzialismo americano che ha più check and balance di questa zozzeria». «Siamo tornati ai tempi – osserva Federico Fornaro, ala Bersani – del discorso del 22 novembre 1922, quello del bivacco (ndr Mussolini)». È l’anticipo della campagna referendaria. Poi per preservare il rapporto con il Quirinale, tentare di allargare la base di consenso e tenere unita la coalizione è stato tutto un togliere e mettere che ha irritato anche l’opposizione disponibile. «Il comportamento che si ha – ironizza Davide Faraone di Italia Viva – sul decreto mille proroghe».
Solo che se non scegli la strada dell’assemblea costituente o della bicamerale devi almeno provarci a ricercare il consenso per evitare le insidie del referendum. Poi certo dopo tanti «no» non ti resta che tenere unita almeno la coalizione. «Noi abbiamo mantenuto – spiega Alberto Balboni (foto), presidente della commissione affari istituzionali di Fratelli d’Italia e vero regista del testo definitivo – l’impianto iniziale che vede nel Premier eletto dal popolo il fulcro del sistema. Anche la faticosa trattativa con la Lega non lo ha modificato. Il capo dello Stato interviene solo se il premier muore, ha un grave impedimento o decade per dare l’incarico ad un altro esponente di maggioranza per formare un nuovo governo. In tutti gli altri casi il pallino resta nel mani del Premier che decide in caso di crisi se andare al voto o meno. Abbiamo dovuto regolare tutte le fattispecie per mantenere il premierato in un perimetro neoparlamentare. Le opposizioni strillano alla svolta autoritaria? Loro ricordano la storiella del «naso»: lo sposo che prima di sposarsi chiede ai genitori di vedere la sposa nuda e accontentato si rifiuta perché dice ha il naso troppo lungo».
Siamo arrivati alla quadratura del cerchio? Una vecchia volpe come Saverio Romano tornata in parlamento sospira: «È il risultato di ciò che c’è a destra e a sinistra. Almeno Berlusconi nella sua riforma aveva un disegno di società. Qui non esiste nessun disegno».