E allora parliamo dell’altra tastiera, quella del piano. Da giovane eri un professionista del pianoforte jazz, con il nome di «Peter» Angela, anche se poi hai intrapreso la strada del giornalismo. Ma quello con la musica è un rapporto iniziato prestissimo.
«Sì, mia mamma voleva a tutti i costi che io e Sandra, mia sorella, studiassimo musica, e io ero incantato ogni volta che sentivo il mio amico del cuore, Lodovico Chico Lessona (così chiamato dai suoi proprio in onore di Beethoven!) che suonava il piano. Così la mia famiglia comprò un pianoforte per l’occasione, ma ogni volta che la maestra arrivava a casa nostra ci chiudevamo in bagno. I solfeggi, le scale, gli arpeggi erano una tortura. La consideravo una punizione. È stato solo quando mia madre ha rinunciato all’insegnante che ho iniziato davvero ad appassionarmi al pianoforte. Il discorso è che bisognerebbe distinguere tra chi studia la musica per diventare concertista e chi invece vuole divertirsi».
Tu però sei diventato molto bravo.
«Quando mi sono appassionato mi sono messo a studiare sul serio, e a quel punto sono stato io a tornare dall’insegnante: ero io a volerlo, perché ero motivato, e sono arrivato all’ottavo anno di conservatorio. Ho dato l’esame di armonia e ho iniziato a comporre e me la cavavo bene. Senza voler sembrare immodesto, posso dire che quando Dado Moroni, per me il più grande pianista italiano di jazz, fece ascoltare una mia registrazione di quei tempi ad alcuni esperti, la scambiarono per un’esecuzione del grande Art Tatum! Però poi è arrivata la televisione e ho capito che per me la musica sarebbe rimasta solo un piacevole hobby. E quando seppi che il caro Chico Lessona, che nel frattempo era diventato un grande concertista, sempre in tournée da qualche parte nel mondo, era morto in un incidente aereo in Romania, sentii proprio come un filo che si spezzava definitivamente».
La musica è un’altra di quelle attività che accompagnano da sempre la nostra specie: hanno ritrovato flauti ricavati da ossa animali, come quello scoperto nel parco archeologico di Divje Babe, in Slovenia, che risalgono a oltre quarantamila anni fa. La musica è una forma di espressione che tocca il cuore e il cervello, e non è un caso se tante grandi menti fossero anche musicisti, proprio come lo era Leonardo.
«È vero. E mi piace pensare che, forse, uno dei motivi per cui la musica ci è così cara è che unisce le persone. Non so se ti è mai capitato di assistere a una parade negli Stati Uniti. Ne ricordo una, in particolare, a Miami, la notte di Capodanno. In testa al corteo c’era il celebre Bob Hope e, al seguito, carri allegorici, danzatori, cantanti, buontemponi… ma soprattutto orchestre: una cinquantina di orchestre delle scuole di Miami. Ciascuna composta da 100-120 elementi. Miami, e tu lo sai visto che ci hai vissuto a lungo durante il tuo apprendistato con Randi, è una città composta principalmente da vecchi e pensionati, che vanno a vivere in Florida da vari Stati americani per godersi il clima; eppure, in quella notte di Capodanno fu in grado di far sfilare per le strade, a ritmo di marcetta, un vero esercito di giovani con lo strumento in mano. Ecco, mi sembra un esempio potente della forza della musica nel creare gioia, legami tra le persone, unione tra le generazioni…»
Io sono solo un dilettante, ma il fatto di avere imparato a suonare il pianoforte e la chitarra quando ero bambino mi ha arricchito tantissimo.
«È così, imparare la musica e saper suonare uno strumento è qualcosa che tutti dovrebbero poter fare, esattamente come tutti imparano a leggere e a scrivere. È infatti una palestra molto efficace».