Sono dipinti come cattivi perché anti follia verde. Ma si vince con meno Stato, non con i sussidi e gli aiuti

Meno vincoli, più diritti. La rabbia e l'orgoglio dei contadini italiani che mostrano i muscoli

È probabile che gli agricoltori vincano la battaglia e perdano la guerra, perché l’intellighenzia li dipinge come brutti e cattivi che intralciano la crociata ambientalista made in Bruxelles.

Un precedente è la marcia dei 40.000 quadri Fiat che nel 1980 sfilarono spontaneamente per le vie di Torino. Al grido di «vogliamo la trattativa, non la morte della Fiat» e «il lavoro si difende lavorando», le componenti produttive sane e liberiste alzarono la testa ponendo fine all’egemonia del sindacato e del Pci, che vedevano nell’impresa non l’interlocutore con cui cercare soluzioni nell’interesse comune ma il nemico da abbattere, per portare i mezzi di produzione sotto il controllo statale. Vinsero, sì, ma le forze dirigiste si inabissarono per proseguire un’opera costante che, alzando sempre più l’asticella per chi produce ricchezza, ha reso l’economia del miracolo un sistema poco produttivo e competitivo. Un mercato del lavoro ingessato, che tutela i posti e non i lavoratori, garantisce chi sta dentro e tiene fuori le risorse giovani o migliori, distribuisce diritti senza mai chiedere conto dei doveri. Un’energia a costi insostenibili, per la rinuncia al nucleare in cui eravamo leader, cercata e ottenuta due volte proprio da quelle forze sottomarine, e per le sovvenzioni in bolletta degli investimenti in energie rinnovabili. L’economia aveva bisogno di trasporti ma la modernizzazione delle vie di comunicazione fu lenta. Dopo l’Autostrada del Sole figlia del miracolo, la legge 492/1975 di fatto impediva la costruzione di qualsiasi altra. Per la variante Firenze/Bologna si dovette attendere il 2015. L’alta velocità ferroviaria ha impiegato decenni ed è comunque limitata alle due direttrici Salerno/Milano e Torino/Venezia. Ancora oggi, andare dal Tirreno all’Adriatico è complicato, in macchina come in treno. Mentre i flussi turistici domestici e internazionali decuplicavano ed esigevano spostamenti comodi e veloci, le strade restavano le stesse, col risultato che un week-end al mare o in montagna è scoraggiato dalle lunghe code. La Salerno-Reggio Calabria è stato un incubo e in Sicilia i trasporti sono un incentivo a sentirsi per telefono, cosa che puoi fare anche restando in Calabria, senza bisogno del Ponte. Almeno le merci avrebbero dovuto viaggiare su ferro e acqua, in un sistema integrato che collegasse snodi ferroviari e porti alle strade, che invece sono piene di camion, che nei festivi vengono fermati. Tanto, che male può fare all’economia un blocco delle merci per 60/70 giorni all’anno?

Oltre l’impresa, la conquista dello Stato proseguiva con la crescita ipertrofica di una Pubblica Amministrazione sprecona che disconosce il merito e scoraggia l’impegno e chiede sempre più soldi da distribuire a pioggia, senza alcun riscontro di creazione di valore. Anzi, producendo più burocrazia che scoraggia l’iniziativa e rallenta la parte sana e produttiva del Paese, a cui veniva anche chiesto di sostenere questa gigantesca fonte di inefficienza attraverso un prelievo fiscale insostenibile e spropositato.

Infine, il capolavoro della cultura statalista. Scuola e università non funzionali a costruire il futuro del Paese ma «postificio» privo di meritocrazia. Risultato: milioni di giovani inadeguati alle nuove professioni e aziende che non trovano manodopera specializzata. L’idea guida è che le forze produttive debbano cavarsela da sole anche se il contesto le mette fuori gioco, in una mai sepolta contrapposizione socialismo/mercato. Vi è piaciuto umiliare Berlinguer fuori ai cancelli di Mirafiori? Avete voluto il mercato? Ora godetevelo e vediamo quanto siete capaci. Questo è il «sistema Italia» in cui l’impresa gioca alla globalizzazione con un braccio legato dietro alla schiena, faticando a restare competitiva per restituire agli azionisti la remunerazione che altrove riceverebbero. Così per sopravvivere finisce col venire a patti col sistema pubblico a cui chiede, finite le svalutazioni, appalti e commesse, concessioni, incentivi e cassa integrazione, innescando pure fenomeni corruttivi. È facile puntare il dito sul «prenditore» specie se non si presenta con gli occhi bassi e il cappello in mano. Ma la storia completa è che la politica e l’intellighenzia hanno creato le sabbie mobili attorno a chi si sforza di produrre ricchezza, che resta una brutta cosa da contrastare e non un modello positivo da imitare. È successo perché dopo che i 40mila tornarono a lavorare nessuna classe intellettuale ne esaltò valori e ragioni. Per l’opinione pubblica gli sconfitti restavano i buoni e i vincitori i cattivi.

Con i trattori la storia si sta ripetendo. Quasi ignorati per settimane, sono raccontati dai media come quelli che vogliono sussidi o sgravi sul satanico gasolio, evitando di collegare la protesta alle politiche ambientaliste che l’hanno innescata. Nemmeno quelli che li sostengono hanno il coraggio di affermare che il Green Deal non è il futuro né il progresso e soprattutto non salverà l’ambiente, ma porterà solo miseria e decrescita infelice. Al massimo si spingono ad invocare, affinché i disastri economici non diventino pure sociali, dilazioni e aiuti con soldi pubblici. Ma perché? Le economie per distribuire la ricchezza devono produrla e non assorbirla dalle tasche dei contribuenti. E i governi devono mettere i Paesi nelle migliori condizioni per crearla, non alleviare l’incapacità a farlo. Qui poi siamo oltre: l’incapacità viene procurata, per giunta con allegrezza. Dopo tre decenni di predicazione ambientalista, paventando l’apocalisse di New York sommersa dalle acque, la stessa COP 28 l’ha detto: a insistere con l’eliminazione dei fossili si torna nelle caverne. Che si legge: se voi occidentali perseverate, ci tornerete voi nelle caverne, visto che noi ne stiamo appena uscendo e non ne sentiamo affatto la mancanza. Ma probabilmente noi ci manchiamo da due/tre generazioni e ignoriamo cosa siano, anzi teorizziamo la decrescita e la chiamiamo felice, in una sorta di Dorian Grey dell’economia. Ma a tornare indietro non vivi meglio, hai solo meno risorse ad esempio per affrontare una pandemia. Tutti l’hanno attraversata, ma solo noi ricchi cantavamo dai balconi.

In conclusione, il compito degli agricoltori è far emergere il problema e, giusto per dire, se anche l’automotive l’avesse fatto ora non starebbe a dannarsi per vendere qualche auto a pile. Quello della politica, per gli uni e per gli altri, è di intervenire non col portafoglio ma con la penna, riportando il timone dell’economia su «avanti tutta».

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