Il sistema dello sviluppo ha avuto nell’industria, fino alla fine del secolo scorso, il suo primo riferimento. A partire dall’inizio dell’attuale secolo, progressivamente hanno guadagnato posizioni l’agroalimentare e soprattutto il terziario, ovvero servizi e commercio, spostando l’ago delle capitalizzazioni e investimenti verso posizioni meno pressanti, visto che i servizi in maggior espansione erano quelli di commercio, ricettivo e logistica di medio e breve raggio. Parimenti la manifattura, fiore all’occhiello del made in Italy, avrebbe necessitato di convertirsi a un nuovo modus operandi che imponeva maggiori dimensioni e capitale proprio investito, in modo da poter sostenere investimenti sempre più rilevanti e costosi. Entrambi i capitoli per essere attuati avrebbero dovuto percorrere tre possibili vie: il conferimento di capitale di soci e azionisti, scucito dalle loro tasche, operazione che avrebbe consentito di dover ricorrere all’indebitamento con minor importanza e a minori costi, oppure procedere a fusioni per realizzare economie di scale e aumentare le marginalità e quindi i profitti, da destinare però alla capitalizzazione, oppure ancora intraprendere il percorso della quotazione in Borsa. Che però, a sua volta, comportava non poche difficoltà, in primis che l’azienda avesse avuto risultati positivi da almeno un triennio e che si ridisegnasse la governance rendendola meno personalizzata e più trasparente.
Parimenti la politica, fin dai primi bagliori del mutamento di paradigma da manifatturiero a terziario, avrebbe dovuto identificare un percorso che desse corso a una politica industriale in grado di evitare di perdere il controllo della filiera, vero valore aggiunto del nostro sistema manifatturiero, in modo che evitasse di finire, com’è successo, in mani estere, infine aprendo alla quotazione in Borsa con minori esborsi e oneri burocratici.
Ahimè, nessuno dei vari passaggi elencati, né dall’imprenditoria, né dalla politica, ha dato corso ai rispettivi programmi. Siamo così arrivati ad un quadrivio che non promette nulla di buono. La politica industriale continua a non prendere corpo, la filiera ha come riferimento sempre più solo grandi soggetti internazionali, sovente in mano a fondi di investimento, il conferimento di capitale proprio di soci e azionisti è rimasto una chimera, con aziende capitalizzate principalmente con beni strumentali, mobiliari e immobiliari che, in caso di difficoltà del business, valgono meno della metà di quanto risulta nelle scritture sociali. E infine di fusioni di una certa rilevanza se ne sono contate proprio poche, e di accessi a Piazza Affari ancora meno.
Mentre tutto quello che avrebbe dovuto avvenire non avveniva, il debito pubblico si è raddoppiato, il costo della macchina pubblica è aumentato considerevolmente, invece di diminuire, e la competizione internazionale si è arricchita di nuovi attori bramosi di conquistare spazi e in grado di offrirsi a prezzi più bassi e a tempi di consegna più brevi. Complesso ora recuperare, cambiare, accelerare.
Il governo Meloni ha fatto eccellenti passaggi sui conti pubblici, mantenendo la rotta e, anche per le categorie meno abbienti, ha immesso risorse abbassando di diversi punti gli oneri finanziari. Meno si è dedicato alla politica industriale e a creare stimoli a favore delle imprese domestiche, di medio-grandi dimensioni, a rimanere in mani italiane. Difficile riuscirci, ma in assenza di una chiara politica industriale, fiscalmente e burocraticamente accomodante, c’ è i rischio di continuare a non riuscire a rilanciare il Pil, stabilmente tra un punto e mezzo e i due punti anno: una percentuale indispensabile per ridurre il debito pubblico e aumentare il reddito procapite.