Propongo questa domenica due cartoline dalle prigioni.
La prima, da Budapest. La vicenda di Ilaria Salis, orrendamente trascinata in tribunale con attrezzi da torturatori, suscita in Italia giusta e corale indignazione, a prescindere delle veridicità o meno delle accuse che la riguardano. Sappiamo che si usano schiavettoni e cavigliere d’acciaio in parecchie parti del mondo. Stavolta capita a un’italiana, per di più nelle grinfie della giustizia di Orbán, arci-amico di Meloni e Salvini. Facile inzuppare il biscotto dell’antifascismo. Il governo italiano, con dispiacere della sinistra che lavora sempre con lo slogan tanto-peggio-tanto-meglio scritto in fronte, a tutela della dignità della brianzola ha protestato con ragione e nei dovuti modi che si usano con un alleato, e pare avere conseguito un successo che se non migliora lo stato generale del mondo, allevia nel suo piccolo le pene della connazionale antifascista: la nostra Meloni avrebbe ottenuto, dato il sovraffollamento e lo squallore smutandato della galera magiara, una luccicante alternativa alla gattabuia, e cioè la detenzione domiciliare, garantita da braccialetto elettronico, presso la nostra ambasciata, dove invece della sbobba l’anarchica potrà farsi una cultura in cocktail. Ne siamo tutti felici. Questa vicenda, al di là delle schermaglie politiche, induce evangelicamente a osservare la nostra mano o, se vogliamo, il nostro occhio. La mano che scaglia la pietra contro Budapest è immacolata? E la pinzetta con cui abbiamo strappato la pagliuzza dall’occhio ungherese non dovremmo sostituirla con una tenaglia per levarci la nostra trave?
La seconda, da Torino. Carcere torinese «Lorusso Cotugno». La carognetta frigna. Che vuole questo pistolino di nome Aslan? Invece di rallegrarsi per la visita, che a mo’ di re magio, il deputato dei Verdi Marco Grimaldi ha dedicato all’istituto penitenziario, piange. Il più giovane detenuto d’Italia ha un mese, è romeno, e rompe già le scatole. Le romperebbe ovunque, con quel vizio dei neonati di cercare aria e sole (…)
(…) anche d’inverno. La madre di 29 anni è accusata di furto, e sta al secondo piano del palazzo sigillato. Allatta il pupo affamato e riottoso, e le agenti penitenziarie si danno da fare per rincuorarla, servirla, e forse pensare. Pensare che? Quel che stiamo pensando tutti apprendendo la notizia: ma non era l’Ungheria l’abissale dirupo della barbarie carceraria di cui è stata vittima l’antifascista lombarda da esportazione?
Che ci fa un bambinetto nella condizione di precoce galeotto, e per di più nella città di maestri del diritto quali Norberto Bobbio e Giancarlo Caselli? Ovvio, fa schifo. Non lui, ma l’Italia. Gli lasciamo succhiare latte e amore dalla tetta materna, oh come siamo umani, ma il contesto è contronatura, e la negazione di libertà che inzuppa chi ci vive penetra inesorabile per osmosi nel cervello e negli ossicini del piccoletto. Non dovrebbe stare lì. Non deve. E infatti ieri mattina il frugoletto è stato trasferito all’Icam, l’istituto a custodia attenuata per madri detenute attiguo alla casa circondariale. Il punto è che se questa gigantesca ingiustizia è accaduta ci sono stati timbri, leggi, procedure, la famosa certezza della legge, che si trasforma in sicurezza non del diritto ma del torto. È troppo chiedere che si rimedi al singolo caso, ma che si rottamino meccanismi giuridici che consentono l’abominio.
Non conosco la signora presunta innocente. Qualcuno dirà che è ovvio che il figlio segua il destino materno. Ho un’altra idea. Deve prevalere il diritto di preservare l’innocente, su quello di punire il colpevole, che oltretutto non è ancora stato sentenziato essere tale. Nel caso specifico si genera un danno che riguarderà il rapporto tra figlio e madre, e di essi con il resto del mondo, portando guai a tutti.
Il caso del piccolo Aslan è il fiorellino del male nel giardino dell’orrore. Esplorarlo e potarlo è un dovere che sono sicuro il ministro Nordio adempirà, se glielo lasceranno fare.
In questi giorni è in corso la protesta con sciopero della fame indetta da «Nessuno tocchi Caino» e che coinvolge da dieci giorni Rita Bernardini, radicale, e Roberto Giachetti, di Italia Viva. Mi rendo conto che parlare di carceri deprime, persino più della politica, ma ci tocca. Il loro livello di civiltà misura un Paese più del Pil. Oggi si può parlare di inferno carcerario, altro che rieducazione. Non si rieducano le acciughe in scatola. Il sovraffollamento e l’assenza di lavoro generano uno stato di disperazione misurabile dal numero dei suicidi: nello scorso mese di gennaio sono stati in 14 a togliersi la vita su una popolazione di 63mila detenuti, gesti estremi circa 20 volte più frequenti rispetto alla comunità dei liberi. La statistica ci avverte di un nuovo record in arrivo. Se si mantiene questa cadenza ferale sarà battuto il disgraziato primato del 2022, con 85 suicidi di cui 5 donne.
A proposito dei 63mila: sono affastellati in celle che al massimo potrebbero ospitarne 51mila. E che dire – a proposito del paragone con l’Ungheria – della condizione sub-umana in cui sono detenuti a regime detto 41bis 740 detenuti di cui 12 donne? Non toccare neppure con un dito un figlio, la certezza di morire senza avere accanto neppure un cane. Sono mafiosi e terroristi, d’accordo, ma i trattamenti disumani sono vietati dalla Costituzione. Trattarli da morti è il prolungamento ipocrita della pena di morte. E certe cose alla lunga si pagano.