Così Mastroianni si innamorò della Triumph della Dolce Vita

Mastroianni si innamorò della Triumph della Dolce Vita

La targa con lettere e numeri bianchi che campeggiava su sfondo nero recitava: ROMA 324229. La carrozzeria era estatica: sinuosa e corvina. Una roadster ruggente e struggente, vento a spettinarti ogni filo in testa, rombo irruento. La casa di produzione “Riama Film” di Angelo Rizzoli l’aveva acquistata con un intento preciso: scivolare lungo i sanpietrini romani, favorendo le scorribande di Marcello Mastroianni ne “La Dolce Vita”. Era uscita di fabbrica nel 1958, la Triumph TR3 guidata dal reporter Marcello Rubini. E subito aveva fatto strage di consensi.

Scoperta, a due posti come la tradizione impone, l’inglesina aveva fatto salire a bordo le innumerevoli fiamme del nostro, tra cui la celeberrima e incantevole Anita Ekberg, il vestito intinto nella fontana di Trevi, lo sguardo da sirena e quella voce che chiamava “Marcello! Marcello”. Poi, dopo le riprese, come spesso accade di quell’auto si erano perdute le tracce. Dissolta nel nulla, con buona pace di Mastroianni, che dopo averla frequentata così a lungo voleva acquistarla per continuare a guidarla. Non trovandola più, ne comprò un’altra uguale, ma certo non poteva essere la stessa cosa, la stessa lacerante emozione.

La vettura la ritrovò nel 2016, scassata e logorata dalle bizze del tempo, l’ex senatore Filippo Berselli, un feticcio per le auto d’epoca, un assegno da 30mila euro siglato per trascinarla nel suo garage. Per scoprire poi, incuriosito proprio da quella targa che pareva incongrua, che quella era una macchina con cumuli di storia sulle spalle. “Risultava immatricolata nel 1956 – rilevò il politico – ma non era possibile, perché la misero in commercio dal 1958. Mi misi a cercare e scoprii la verità“.

Così quello era il destriero, orrendamente malmesso, che Fellini aveva assegnato a Mastroianni per fendere la luccicante cortina romana dei primi anni Sessanta, denunciando la tragica crisi di un modello sociale immerso fino alla fronte nella giungla dei piaceri. La macchina, tuttavia, non dava motivo di immalinconirsi. Partita come casa produttrice di motociclette, dal 1923 la Triumph iniziò a virare anche verso quest’altra succulenta porzione di mercato. Ma c’era da battere la poderosa concorrenza della Jaguar e di altri rutilanti produttori.

Nacque così un modello sportivo – la TR – che provava a spintonare fin dai primi vagiti, ma è singolare annotare come la versione numero uno (la TR1, appunto) non uscì mai sul mercato a causa della grandinata di critiche ricevute dagli addetti ai lavori dell’epoca. Cominciò quindi dalla TR2, questa densa storia destinata a protrarsi fino al 1981, ma è il terzo modello quello che, per ragioni filmiche, è destinato a rimanere più inciso nella storia.

L’idea arrivò nel 1955, come evoluzione della versione precedente. Ne fecero 60mila esemplari, l’ottanta per cento dei quali volò verso gli Stati Uniti. Rappresentava il concetto di spider tirato all’ennesima potenza. Seduta rasoterra, volante enorme e verticale, zero finestrini, capote non agganciata alla carrozzeria. La scomodità al potere? No, la gente ci vedeva carisma esondante. Anche il design, con quei parafanghi così voluminosi e decisi, raccontava aggressività. Anche da quella calandra a “bocca larga” trapelava seduzione.

Estetica ammiccante abbinata alle prestazioni. L’assetto rigido della vettura imponeva quasi una prestazione fisica per orientarla, ma quel propulsore da 1991 di cilindrata elargiva soddisfazioni in serie, tanto ai mortali che si gingillavano per i viottoli di città, quanto ai piloti delle corse più accese. Il rombo che emetteva era una risata grassa, da farsi in compagnia.

Un’inglesina a Roma. La più bella di sempre.

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