“La zona d’interesse”: la familiarità serafica e agghiacciante del male

"La zona d’interesse": la familiarità serafica e agghiacciante del male

La zona d’interesse, il film di Jonathan Glazerin in Concorso al Festival di Cannes 2023 e passato poi alla diciottesima Festa del Cinema di Roma, sarà nelle italiane dal 22 febbraio e si candida, nelle intenzioni, a togliere il sonno a molti. L’opera è candidata a cinque Oscar (miglior film, regia, film straniero, sceneggiatura non originale e sonoro) ed è tratta, molto liberamente, dall’omonimo romanzo di Martin Amis, edito in Italia da Einaudi.

Dimenticate i film sulla Shoah cui siete abituati: a questo giro lo spettatore non è chiamato a provare empatia per le vittime, che sono sempre fuoricampo di una manciata di metri, ma è messo invece di fronte alla quotidianità casalinga dei carnefici, uomini affettuosi in famiglia e in tutto simili a chiunque di noi. La “banalità del male”, così è stata a suo tempo codificata.

Stavolta l’orrore è solo perimetrale e non stupisce la candidatura all’Oscar per il miglior sonoro perché è lì, nel sottofondo audio, che figurano gli oppressi, i torturati, i giustiziati. Per non parlare di come la narrazione venga introdotta e chiusa da una angosciante clip audio su fondo nero, la cui parvenza musicale sembra infestata di anime che non conoscono pace.

La prospettiva in La zona d’interesse è quella degli aguzzini, va infatti in scena il ritratto di famiglia di Rudolf Höss (Christian Friedel), il direttore del campo di concentramento di Auschwitz. L’uomo vive, assieme a moglie (Sandra Hüller) e numerosi figlioletti, in una villa circondata da un giardino delimitato da un muro che la separa dal campo e dall’orrore.

Da spettatori assistiamo al lento, finanche un po’ noioso procedere di un ménage famigliare come tanti: lui va al lavoro, lei cura il giardino e i figli giocano. La percezione tra le mura di casa è che il capofamiglia svolga una professione qualsiasi, da funzionario che cerca di adempiere agli ordini nel modo migliore possibile. Gentile con i congiunti, l’uomo si preoccupa di fare carriera (spinto in questo dalla moglie), ama il suo cavallo e, anche nei momenti di festa, la sua mente vaga in cerca di soluzioni su come gassare esseri umani e ottimizzare l’uso dei forni in cui saranno bruciati i corpi.

In tutto questo il protagonista è lontanissimo dal cliché dell’SS visionaria ed esaltata, incarna semmai un uomo medio, a tratti perfino mediocre, sobillato dalle ambizioni di una moglie che si è costruita un eden e è risoluta a continuare a coltivarlo, pazienza se accanto all’Inferno.

La cura e l’affetto verso animali e piante stride continuamente con l’oggettivizzazione delle vittime di Auschwitz, le cui sofferenze sono fioco sottofondo sonoro vinto dal rumore bianco dei bambini che giocano in piscina, del cane che abbaia festoso e dei pettegolezzi all’ora del thè.

In La zona d’interesse va in scena il distacco totale tra la percezione soggettiva e la realtà oggettiva. La famigliola protagonista vive in una bolla in cui vige la negazione di quanto avvenga ad un passo. La visione del film è disturbante non tanto per l’argomento trattato, o per gli eventi bellici recenti che lo rendono atrocemente attuale, bensì per l’effetto specchio: ci troviamo a vedere riprodotta la stessa attenzione settoriale che mettiamo in campo nella nostra vita. Non importa quanta acqua sia passata sotto i ponti, il fiume di disaffezione a ciò che disturba il nostro benessere è ancora lo stesso.

Tutti siamo complici passivi del male, ogni volta in cui dimentichiamo come il prezzo del privilegio sia spesso pagato dalla sofferenza di altri esseri umani o di altre creature. In questa constatazione sta l’elemento horror del film.

La zona d’interesse muove rigurgiti di coscienza e raggela per le implicazioni morali che porta alla luce nel presente di ognuno di noi.

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