Acerra, Napoli. È la notte del 3 marzo 2022. I carabinieri trovano una Fiat 600 che brucia. Dentro c’è il corpo ormai carbonizzato di un uomo. Il suo nome era Domenico Vellega, aveva 48 anni. Ciò che emerge dall’autopsia è raccapricciante: era ancora vivo quando l’auto è andata in fiamme. Un particolare trasforma questa morte in un giallo: entrambi i sedili anteriori sono stati trovati reclinati. Non può essere un suicidio. Si fa avanti la pista del delitto di camorra. Fino a ieri, quando è stata eseguita un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. I presunti assassini sarebbero l’ex moglie della vittima e il suo compagno. L’accusa è omicidio aggravato.
Quando si tratta di violenza femminile in una relazione intima, i «Cold Case» non sono una novità. Le donne assassine sono spesso scaltre, raramente colpiscono d’impeto. Ci sono voluti ben 15 anni per scoprire che l’imprenditore 44enne Santo Giuffrida non era morto stroncato da un infarto il 9 dicembre del 2002. Era stato ucciso con un’iniezione di veleno e poi soffocato da due sicari ingaggiati dalla convivente. E anche qui, non siamo di fronte a una novità: le donne spesso si fanno aiutare da altri uomini, che siano sicari, nuovi compagni di vita, amanti o, qualche volta, figli. Ma quali sono le radici della violenza, spesso crudele, che avviene nel mondo degli affetti? Quanto contano i fattori ambientali, economici, esistenziali? Quanta parte hanno, in questa distruzione brutale di un rapporto, sentimenti come la rabbia, la frustrazione, la gelosia, il narcisismo, la paranoia, la psicosi? Stati dello spirito (non sempre sintomo di anormalità) che appartengono anche all’animo femminile.
Siamo sempre nel 2024, sempre a gennaio, il 25. A Martinengo, nella Bassa Bergamasca, Diego Rota, 56 anni e padre di una bimba di 5, muore accoltellato dalla moglie Caryl, dieci anni di meno. L’allarme al 112 è arrivato alle 23,30. Diego è morto ammazzato nel suo letto, ucciso dalla donna della sua vita, di cui sembra si prendesse cura per problemi di natura psichiatrica. E anche qui, il caso non è isolato. Le donne uccidono più facilmente mentre i loro compagni sono inermi, mentre dormono. È morto così anche Marco Benzi, nel 2017. Sì. Anche le donne uccidono. Anzi, uccidono soprattutto in famiglia. Nel mondo degli affetti. Psicopatologia, ma anche senso del possesso, malvagità, anaffettività, muovono anche le loro azioni. Allora occorre avviare un percorso in grado di far compiere un salto di qualità nell’approccio a un grave problema sociale e umano. Però si deve uscire da quel paradigma ideologico che ha imposto interventi e azioni esclusivamente per la tutela delle vittime femminili. Che non vuol dire arretrare rinunciando a tutto ciò che fino ad oggi è stato costruito. Non significa giustificare. Significa comprendere pienamente una dimensione estremamente vasta. Questi terrificanti delitti non avvengono per caso, tra perfetti sconosciuti. Avvengono in un preciso rapporto vittima/carnefice. La scena del crimine, che le vittime siano maschi o femmine, è la stessa: la relazione sentimentale. Il filo conduttore è uno, ci lega tutti, uomini, donne, bambini, anziani: è quell’incapacità di amare dalla quale nascono le relazioni malate, dov’è facile l’esercizio di una violenza subdola e crudele. Una violenza che ha la sorgente proprio nel nucleo famigliare, ma che non si ferma lì: esce per poi rientrarvi, in un flusso inarrestabile di orrore e di dolore. Il male, per sopravvivere, utilizza la carta dell’invisibilità. Se vogliamo vincerlo, dobbiamo saperlo vedere. Per vedere è necessaria una sintesi, un nuovo paradigma inclusivo che va oltre la supremazia di una conoscenza frammentata (e ideologizzata).