Sinner, recluso volontario e la fuga dall’Innominato

Sinner, recluso volontario e la fuga dall'Innominato

In effetti il grande assente sembra proprio lui, Riccardo Piatti, il coach che nel 2014 trascinò il 13enne Jannik Sinner e lo portò sino alla Top 10 del febbraio 2022, meno di due anni fa: ora assente, appunto, da centinaia di articoli celebrativi e anche dalle interviste di Jannik. Non è un segno che se l’è dimenticato, ma che viceversa non se l’è dimenticato: i divorzi lasciano il segno. Anche Piatti lo lascia sempre, come sanno i tennisti italiani (tanti) che con lui entrarono nei primi trenta del mondo, e come confermerebbero Ivan Ljubicic, Stan Wawrinka, Novak Diokovic, Garbine Muguruza e Milos Raonic. Solo nel 2020 tra i candidati del premio Atp per il migliore allenatore dell’Anno c’era ancora lui, Riccardo Piatti, ombra della prorompente crescita di Sinner: ora è sparito. Che è successo? Niente, tutto: compreso che ora come allora, da gentiluomini, i due hanno preferito non tornare sull’argomento; compreso, pure, che forse tra il ruolo di promessa e quello di campione c’è un’anticamera che appartiene al diavolo come tutto il resto del tennis.

Chi segue Sinner da quand’era 150esimo del mondo, e almeno sette centimetri più basso, ricorda quando lui stesso diceva che oltre alla playstation e ai filmati di tennis poco altro lo interessava: e fu lì, da recluso volontario, che cominciò a sfuggirgli l’adolescenza, come lui stesso ha ricordato nei giorni scorsi. Noi, sfegatati ante litteram, lo ricordiamo nelle prime incursioni nella Top 100, quando ad Anversa fece fuori Gael Monfils e Frances Tiafoe, quando vinse le Finals Next Gen e prese tutti a pallate allora come ora, quando da outsider superò David Goffin, Alexander Zverev, Casper Ruud sinchè il diavolo ci mise lo zampino, anzi il piede, pieno di vesciche. Era ormai in quella maledetta anticamera, e soprattutto, Sinner, era quasi un uomo: cominciava, oltre a quelle del top spin, a sbirciare anche altre curve, e con spirito diverso si avventurava fuori dai confini molto professionali dell’accademia «Piatti Tennis Centre», dove c’era un metodo che, infine, ha sempre messo d’accordo tutti: ti sfinisce, perché, oltre al tennis, c’è solo il tennis. L’unico dettaglio mai sfuggito a Riccardo Piatti fu questo: «Chi rimane con me deve sottostare ai miei metodi». Tanti supporter (come noi) cominciavano peraltro a scoraggiarsi: Jannik sembrava impantanato, s’infortunava spesso, le sue pallate sembravano intimidite, sorgeva il problema di dove tirarle, e poi mancava il servizio, mancava sempre un piano B, mentre non mancava, mai, qualche malelingua a dire che Piatti voleva troppi soldi e oltre le pallate non voleva andare. Fango, pantano e una vita adulta con le sue sirene: era il torneo più difficile da vincere, e però Piatti l’aveva detto: «A vent’anni ci sta che si voglia cercare nuove strade, fa parte della vita». Aveva ragione. E ce l’aveva anche Jannik, così pare. È stato il turno più difficile, dopodiché la promessa è diventata quello che sperava, che credeva, che sapeva di essere: un campione.

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