Solo Piercamillo Davigo sa davvero cosa gli passò per la testa quando invitò a casa il collega Paolo Storari e si fece consegnare i verbali del «caso Eni», dove il pentito Piero Amara raccontava di una misteriosa loggia para-massonica chiamata Ungheria. Solo Davigo sa quali obiettivi lo spinsero a divulgare quei verbali qua e là, tra politici e colleghi, mentre la sua segretaria li mandava ai giornali in buste anonime. Ansia di giustizia o conti in sospeso? Di sicuro, poco dopo essere arrivati nelle mani di Davigo i verbali segreti non erano più segreti. E capire se Ungheria esisteva davvero divenne impossibile.
Ieri a Brescia si apre il processo d’appello all’ex Dottor Sottile del pool Mani Pulite, divenuto poi leader dell’ala dura dell’Associazione magistrati, presidente dell’Anm stessa, membro del Consiglio superiore della magistratura. E finito in un pasticcio che gli ha fatto sperimentare sulla sua pelle quanto sia scomodo il ruolo di imputato. In primo grado gli avevano dato un anno e tre mesi di carcere per rivelazione di segreto d’ufficio. Ieri la Procura generale chiede la conferma della condanna. Nelle mani di Davigo, dice il pg, i verbali di Amara diventarono un «segreto di Pulcinella». Già prima, quando si era fatto consegnare le bozze dei verbali da Storari, «era assolutamente chiaro che la consegna avveniva clandestinamente». Fu Davigo a rassicurare Storari, «sono membro del Csm e ho diritto di conoscerli»: e per questo Storari è stato assolto. Ma Davigo sapeva bene che «si trattava di un passaggio non rituale» in «assenza di una ragione ufficiale che legittimasse a svelare atti secretati». Se la Corte d’appello assolvesse Davigo, dice il procuratore, si andrebbe verso «un futuro distopico dove ogni singolo pm potrebbe consegnare atti secretati al singolo consigliere Csm con il rischio di trasformare il Csm in luogo di amplificazione di ogni notizia di reato».
Il 7 marzo è prevista la sentenza, quel giorno Davigo saprà se – Cassazione permettendo – il suo destino è entrare nel triste mondo dei pregiudicati. Lui giura di avere fatto tutto a fin di bene, per evitare l’insabbiamento delle indagini su Ungheria da parte dei suoi ex amici della Procura di Milano. Ma la sentenza di primo grado, quella emessa l’anno scorso dal tribunale di Brescia, evocava scenari più complicati. Troppo banale, la storia di Storari che mosso da sincera indignazione si rivolge a un suo mito come Davigo? I giudici si domandavano «se quella del sostituto sia stata davvero un’iniziativa self made o non vi sia stato, invece, un qualche mentore ispiratore, come pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra». Chi siano questi «mentori ispiratori» non lo sapremo mai. Ma il tribunale dà per provato che le «modalità carbonare» con cui si muove Davigo nella vicenda «appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale».
Proprio «smarrimento» è forse la parola giusta: figlio dell’età, di una carriera ormai alla fine. E la domanda cruciale è quella che alla fine fa il difensore di Davigo, Davide Steccanella, che ne chiede l’assoluzione perchè «ha agito in buona fede per ripristinare la legalità». «Secondo voi – chiede Steccanella – perchè Davigo a pochi giorni dalla pensione pensa di violare la legge che in modo maniacale ha sempre difeso e rispettato?».
Già: perchè?