Fluttuava per il campo con quel fisico ancora più esile di oggi, una zazzera arancione che gli strusciava in fronte e sulla quale sbuffare, l’incarnato pallido di chi non pare in gran forma, e invece poi aveva energie da vendere per domare ogni match. Assomigliava ad un filo di rame, Jannik Sinner, ma uno di quelli che non puoi spezzare mai. Sembra una vita fa, ma era soltanto il 2017. Bergamo, Challenger Faip – Perrel. Lui di anni ne aveva appena 17 ed occupa il posto numero 546 nell’affollato circuito dei tennisti di professione. Figurarsi cosa può combinare uno così, ridacchia qualcuno prima dell’inizio del torneo.
E invece il piccolo Jannik accompagna ad uno ad uno alla porta tutti i suoi avversari. Salvatore Caruso, Viktor Galovic, Gianluca Quinzi: prego, accomodarsi fuori. La gente comincia a inquadrarlo come la classica scheggia impazzita, ma c’è di più. Quello è il primo vero caveat di Sinner. Da lì inizia a trapelare il campione che cinque anni e mezzo più tardi, precisamente oggi, solleverà il trofeo maschile degli Australian Open, a distanza di quasi mezzo secolo dal suo predecessore italiano.
A Bergamo è una di quelle sere color petrolio gelido. Il 24 febbraio 2019, circa tremila persone sciamano verso il PalaNorda per assistere ai primi vagiti tennistici di questo prodigioso pel di carota. Sul cemento verde, dall’altro lato della rete, si scalda con una certa sicumera Roberto Marcora, l’avversario in finale. Non è strafottente, ma ha tutto il diritto di crederci. Nell’angolo di Sinner ci sono proprio tutti i membri del suo staff. Andrea Volpini, Cristian Brandi e, per la luccicante occasione, anche il regale Riccardo Piatti.
Mamma e papà invece l’hanno seguito fino a lì dalla Val Pusteria. Lei cameriera, lui cuoco. Jannik se la cavava disinvolto anche sugli sci, ma poi ha deciso per il tennis. E loro l’hanno sempre sostenuto. Agevolato nella realizzazione del suo personalissimo sentire. Particolare alquanto dirimente nella formazione del campione che sarà, come lui ha ricordato anche oggi, esausto, dopo il durissimo match contro il russo Danil Medveded.
Quel giorno di cinque anni e mezzo fa, invece, non c’è proprio storia. Jannik addenta la sua prima finale con attitudine glaciale: 6-3/6-0 e buonanotte ai sogni altrui. Chi si trova lì a scrutare quel ragazzino che impartisce fendenti profondi con movenze eleganti, deve intuire qualcosa. Stanno assistento alla bottiglia di pregio che si stappa. Alla gemmazione di un predestinato che viene fuori schiumando incontenibile.
Cinque anni e mezzo passati a scalare il ranking con volontà ferale e classe impertinente, avvicinandosi all’empireo del tennis, sollevando la Davis in gruppo. Fino ad oggi. Dopo aver strapazzato Nole, il vecchio signore feudale del circuito, contro il terribile russo. La sensazione di essere sopraffatto. Quel successo meritato che sembra sfilare via. Fino al riscatto suo e di un popolo intero. Fino a sdraiarsi per terra, sfinito e ansimante, fissando il cielo di Melbourne, con la sensazione di essere sul serio cresciuto in fretta.