L’avevano chiamato per sostituire un asso come Julinho, ma lui non si era mica scomposto. In fondo sapeva che poteva fare anche meglio. Molto più tardi negli anni avrebbe dichiarato: “Non è stata un’eredità pesante, lui segnava poco, io la buttavo spesso dentro”. Ma non si deve confondere la sicurezza con la tracotanza. Kurt Hamrin coltivava internamente le certezze che si portano appresso solo i campioni autentici. Così quel passo, nel 1958, l’aveva compiuto senza particolari patemi.
Era nato nel 1934 a Stoccolma e le premesse della sua vita non sembravano incoraggianti. In casa pareva che i soldi non bastassero mai. Il padre appiccicava il pranzo con la cena facendo l’imbianchino. Lui, già da adolescente, aveva iniziato a fare l’aiuto operaio, poi si era prestato anche come zincografo per un conosciuto quotidiano svedese. Ma c’era un altro destino che premeva per svelarsi, per spingerlo altrove, oltre quella vita. C’era che il giovane Hamrin, con un pallone tra i piedi sui campi rinsecchiti dal ghiaccio pareva librarsi.
Gli osservatori di mezza Europa riempivano d’inchiostro i taccuini per annotare ogni virtù di questo diciassettenne che giocava nella prima squadra dell’Aik di Solna, dopo essere venuto su dalle giovanili. C’era, del resto, da scrivere moltissimo: Hamrin era un’ala destra leggera e imprendibile, capace di sfoderare dribbling estatici, che lo cavavano fuori dalle situazioni più intricate. Poi, da quella posizione sapeva distribuire tonnellate di assist. E segnava, segnava senza sosta.
Se ne accorse anche Giovanni Agnelli, che se ne invaghì perdutamente durante un match tra Svezia e Portogallo e riuscì ad ingaggiarlo nel 1956 per la sua Juve al costo di 15mila dollari. Kurt si rese autore di un incipit scintillante, ma tre infortuni consecutivi alla caviglia ne diluirono il potenziale. Con l’arrivo di Charles e Sivori passò al Padova, dove rimase soltanto un anno, ma disputando un campionato fenomenale.
Doveva però ancora avverarsi quel destino inciso nella sua personalissima storia. Doveva ancora diventare l’Uccellino capace di volare sopra Firenze per nove anni di fila, dispensando gioia e trofei, anche se lo scudetto non sarebbe arrivato. Quell’espressione, quell’assimilare il suo modo di correre alla danza di un piccolo volatile, sarebbe uscita dalla formidabile penna di Beppe Pegolotti. E lo avrebbe accompagnato per sempre.
In riva all’Arno sarebbe sarebbe arrivato due volte secondo, ma issando contro il cielo una Coppa Italia, una Coppa delle Coppe, una Coppa delle Alpi e una Mitropa. Con 208 gol su 362 partite disputate, resta il miglior bomber della storia gigliata, secondo a Batistuta soltanto per numero di reti fatte in Serie A. Di lui non si dissiperanno mai le immagini delle cinque segnature di fila all’Atalanta, in un prodigioso 1-7, né quel fenomenale numero inflitto alla Juventus, il 27 marzo del 1960: assist di Montuori, difensore saltato, rete volante.
L’idillio avrebbe avuto una data di scadenza. Sarebbe seguito un finale di carriera al Milan e poi al Napoli, prima di tornare a Stoccolma. Ma quel volo sopra Firenze sì: quello resta per sempre.