In un Paese normale la giustizia non dovrebbe essere una variabile economica. In Italia, invece, lo è eccome. E per questo, alla sesta edizione della Ripartenza che si terrà venerdì 2 febbraio al centro congressi della Fondazione Cariplo a Milano, Nicola Porro affronterà quello che da emergenza è diventato un male endemico. Male che, come fa notare il vicedirettore del Giornale, sta frenando la crescita.
L’Italia è il Paese della folle inchiesta su Eni. Cambierà mai qualcosa?
«La giustizia italiana non vive di precedenti ed è una struttura fatta di monadi. Quindi anche l’ultimo (procuratore) arrivato può aprire un fascicolo e indagare su un’impresa o un individuo. È qui che si annida il problema: in virtù della sua indipendenza, che per carità deve mantenere, la giustizia penale ha un potere di intervento pazzesco».
Si è visto con Ilva.
«È stato un furto giudiziario e mediatico nei confronti dei legittimi proprietari, la famiglia Riva. Ilva era un gioiellino dal punto di vista economico e produttivo ed è stato espropriato dalla solita commistione toghe-giornali-piazza. Tutto il resto sono balle».
Nordio, che sarà alla Ripartenza, sta riuscendo a scardinare il Sistema?
«Quelli di destra liberale, i garantisti, vogliono che, dopo vent’anni di immobilismo, la riforma della giustizia venga fatta tutta e subito. A sinistra, invece, cercano di bloccare tutto. In mezzo c’è il ministro che alcuni pezzi di questa riforma li ha già realizzati».
Come?
«Introdurre nuove leggi è più semplice: manette agli evasori, galera per i rave party non autorizzati, l’arresto per gli eco vandali. La vera sfida è ridurre il pan-penalismo. E, sebbene su questioni di dettaglio abbia varato norme penali esagerate, il governo è riuscito a sfoltire gli abusi degli anni scorsi».
Capitolo economia.
«Meloni lo ha detto chiaramente: le poche risorse che ci sono devono andare alle fasce più deboli. Per il momento, quindi, è stato fatto poco sui redditi medio-alti che sono il traino del Paese».
Finanziaria da bocciare?
«No, non contesto Meloni per questo. Però avrebbe potuto dimostrare più coraggio».
A Quarta Repubblica il premier ha sfidato gli Elkann.
«Con Fiat è un odio-amore che dura da un secolo».
Più odio, forse?
«Rappresentando l’automotive italiano Fiat tiene da sempre in piedi l’ossatura dell’industria meccanica nazionale. Peccato che si sia sempre fatta gli affari suoi. Tutto legittimo se non fosse che in passato questi affari, quando andavano in rosso, venivano coperti dallo Stato. Ora che non è più fattibile, delocalizza dove più gli conviene».
Intanto a sinistra pensano alla patrimoniale.
«Faremmo bene a ricordarci tutti i giorni cosa sarebbe accaduto in Italia se avesse vinto la sinistra».
Un incubo?
«Immagina un governo guidato da Schlein suggerita dalle intuizioni del circolo Fornero, da chi pensa che il problema siano gli evasori e non la produzione, le tasse e non le defiscalizzazioni, le regole e non le libertà d’impresa».
Nonostante la sconfitta elettorale pretendono ancora di dare le carte, ne è l’esempio la polemica sulla nomina di De Fusco al teatro di Roma…
«Hanno gestito queste nomine per decenni e ora che non tocca più a loro si mettono a urlare. Giannini parla addirittura di capocrazia».
È uno dei tipici «altarini della sinistra» su cui hai da poco scritto un libro.
«In un Paese normale avremmo riso di questa vicenda, invece i giornali ne parlano come se fosse uno scandalo. Perché la sinistra, incapace di gestire i fenomeni economici e sociali importanti, pretende ancora di governare con le piccole cricche di Paese».
Un consiglio a Meloni e Schlein: devono candidarsi alle europee?
«Sì. A Schlein servirebbe a consolidare la leadership. Meloni, invece, garantirebbe a Fratelli d’Italia un successo maggiore rafforzando così l’intera coalizione di governo. La premier dovrebbe, tuttavia, considerare un fattore: oltre a dover gestire Palazzo Chigi e le elezioni, ha anche la presidenza del G7. Potrebbe essere complicato tenere tutto insieme».