“Per competere servono gli eurobond”

"Per competere servono gli eurobond"

«Siate realisti, chiedete l’impossibile». Uno degli snodi-chiave del Caligola di Camus potrebbe tranquillamente essere rubato da Fabio Panetta a mo’ di manifesto programmatico. Il governatore di Bankitalia ha infatti scelto ieri il palco di Riga, dove si celebravano i dieci anni d’ingresso della Lettonia nella moneta unica, per rilanciare un’idea urticante per chi non vuole saperne di mutualizzare i debiti europei: il varo degli eurobond come strumento finanziario istituzionalizzato, e perciò strutturale, in grado di far da contraltare ai treasuries Usa e – ahia – anche al bund tedesco.

La missione, per quanto apparentemente impossibile visto l’ostracismo mostrato dall’ala comunitaria dei frugali ai tempi della messa a punto del Next Generation Ue, è però sorretta da una buona dose di realismo. Spiega Panetta: «La disponibilità di un titolo comune europeo privo di rischio è necessaria per lo sviluppo delle principali attività finanziarie». A imporne l’adozione, anche un contesto internazionale sempre più complicato e in cui l’Europa rischia di far la fine del vaso di coccio, trovandosi schiacciata fra la potenza finanziaria egemone degli Usa e la minaccia rappresentata dal continuo allargamento dei Brics. Un mondo in evoluzione rende urgente un rafforzamento dell’euro su scala internazionale, anche con lo scopo di contrastare chi, come la Cina, usa la propria moneta come un’arma, «facendo leva sul proprio potere finanziario per incidere sugli sviluppi geopolitici a livello globale».

Gli attuali scenari spingono, secondo l’ex componente del board Bce, verso una scelta ineluttabile: «Emissioni episodiche (di obbligazioni comunitarie, ndr) non bastano per determinare un punto di svolta: per facilitare lo sviluppo dell’Unione monetaria e rafforzare il ruolo internazionale dell’euro abbiamo bisogno di un’offerta stabile e regolare di titoli europei privi di rischio». Ovvero, quanto finora è mancato. Il punto dolente non è infatti la carenza di emissioni: grazie al programma Sure contro la disoccupazione (ottobre 2020) e al Recovery Fund (giugno ’21), Bruxelles avrà collocato circa 1.170 miliardi entro il 26, quando il Next Generation Ue arriverà al capolinea. I punti critici sono due: il probabile prosciugamento di questo canale di finanziamento fra un paio d’anni; e il fatto che questi titoli non sono considerati free risk asset: hanno tassi superiori a quelli dei collocamenti nazionali (soprattutto sulle scadenze lunghe) e non sono emessi da uno Stato federato con un unico bilancio e con capacità di prelievo fiscale.

Così si spiega l’avversione verso strumenti permanenti di debito collettivo da parte di nazioni come la Germania, dove debito è peraltro sinonimo di colpa. L’Italia – va detto – è tra i pochi Paesi che più beneficerebbero degli eurobond dato i rendimenti dei Btp; ma è altrettanto vero, come ricorda Panetta, che un titolo comune europeo «faciliterebbe la determinazione del prezzo di prodotti finanziari rischiosi, quali le obbligazioni societarie e i derivati, stimolandone l’espansione» e «costituirebbe la base delle riserve internazionali in euro detenute dalle banche centrali estere». La scarsità del bene eurobond è quindi in buona sostanza «il vincolo più importante allo sviluppo dell’unione del mercati dei capitali».

L’altro punto dolente sollevato dal governatore ieri riguarda «l’incompletezza dell’Unione bancaria europea», non essendo stati il Meccanismo di vigilanza e quello di risoluzione due stampelle così robuste per poter reggere la creazione di un mercato bancario unico. Un altro tassello mancante di quel puzzle complicato che resta l’Europa.

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