New York, guerra ai social: pericolosi più dell’alcol

New York, guerra ai social: pericolosi più dell'alcol

Nuoce gravemente alla salute. I social finiscono all’indice come alcol, tabacco e pistole. Il sindaco di New York, Eric Adams, rispolvera il proibizionismo da America degli anni ’20 del Novecento per provare a mettere un freno all’uso dei social da parte dei giovani. Nella Grande Mela (nella foto Adams) saranno catalogati come «pericolo per la salute pubblica», addirittura il provvedimento li definisce una «tossina ambientale». I rischi sarebbero quelli legati a un uso compulsivo e ossessivo indotti da funzionalità create per generare dipendenza, caricando materiale e interagendo con altri utenti, tenendo traccia delle attività e dei dati. I marchi non sono indicati, in filigrana si intravedono tutte le piattaforme conosciute.

Il dibattito – specialmente sui social – è aperto. La maggior parte degli Stati americani ha cercato di porre un freno con leggi restrittive a macchia di leopardo. A puntare il dito contro «l’elefante in mezzo alla stanza» è stata nel maggio scorso l’associazione americana degli psicologi. L’allarme era diretto: diversi studi hanno provato il legame tra l’uso dei social e la comparsa di sintomi depressivi. Vulnerabilità dell’autostima, esposizione non mediata a contenuti violenti e sessualmente espliciti. Pedagogisti e psicologi dello sviluppo pubblicano sempre più spesso raccomandazioni e guide per i genitori. Il messaggio è univoco: evitare l’uso di smartphone, con annessi di profili e connessi di interazioni social, almeno fino a 13 anni. I buoni consigli, però, si scontrano con famiglie che troppo spesso sanno offrire solo cattivi esempi. Il 98% dei ragazzi italiani tra i 14 e i 19 anni ha un cellulare da quando ne aveva 10 e uno su due passa fino a 6 ore al giorno davanti al piccolo schermo. Sisifo è in ottima compagnia.

In Cina, Paese che ha un rapporto complesso – o, per meglio dire, compresso – con le libertà, hanno discusso (non troppo) e scelto la linea dura. Niente connessione dalle 22 alle 6 del mattino. E limitazioni orarie all’utilizzo: sotto gli 8 anni massimo 40 minuti al giorno, fino a 15 anni un’ora soltanto, che diventano due per sedicenni e diciassettenni. In Occidente il compito di imporre dei limiti è lasciato alle singole famiglie che, spesso, usano i cellulari come surrogato della baby sitter: il potere «ammaliante» dello schermo consente una cena in tranquillità al ristorante o qualche momento di tregua domestica. E quindi si sottopongono i figli, già a partire dai 2-3 anni, telefonino alla mano, a sessioni più o meno lunghe di cartoni animati.

Tanta attenzione ai comportamenti di ragazzi, adolescenti e giovani nasce dalla consapevolezza dei pericoli a cui potrebbero essere esposti. Nessuno sottovaluta, anzi. I casi clamorosi di cronaca (l’ultima il suicidio della ristoratrice di Lodi «messa all’indice» sui social media), il cyberbullismo, la ricerca di approvazione «telematica» costante, ma anche solo l’interazione continua con altri utenti e il compulsare incessante sui cellulari, disegnano un abbrutimento generalizzato dell’essere umano contemporaneo. Sempre più social e sempre meno sociale, per citare il bardo con una moglie influencer recentemente travolta da un’ondata di disapprovazione per iniziative (social) di beneficenza che poi benefiche non erano. Se l’adulto medio è questo, e tranne rarissimi casi lo è, più degli editti e delle proibizioni servirebbe un’operazione di presa di coscienza, prima, e di redenzione collettiva poi. Altrimenti la fine, si torna lì, è quella delle comari di De André. Costrette a dare buoni consigli – o peggio ordini e disposizioni – quando non possono più dare il cattivo esempio.

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