A quasi tre settimane dall’inizio della campagna militare lanciata da Stati Uniti con il supporto del Regno Unito contro gli Houthi, i miliziani yemeniti continuano a minacciare il traffico commerciale nell’area compresa tra il Mar Rosso ed il Golfo di Aden. Nella giornata di mercoledì si sono registrati nuovi scontri tra il movimento sciita filoiraniano e le navi da guerra americane che cercavano di proteggere i mercantili. QatarEnergy, l’azienda petrolifera pubblica del Qatar, ha avvertito che la situazione nella regione potrà determinare un impatto sulla “programmazione di alcune consegne di gas naturale liquefatto”. Risultati impressionanti per un gruppo ritenuto fino a poco tempo fa disorganizzato e privo di risorse e che ha sorpreso analisti e policymaker.
La crescita degli Houthi
Il movimento armato è nato negli anni Novanta in Yemen prendendo il nome dal loro fondatore, Hussein al Houthi, ed è formalmente noto come Ansar Allah (i partigiani di Dio). La loro causa originaria era la deposizione di un regime, quello di Ali Abdullah Saleh, considerato corrotto. La guerra in Iraq del 2003 ha radicalizzato il gruppo e da quel momento il governo locale, insieme al sostegno dell’Arabia Saudita, ha cercato senza successo di eliminare i ribelli. Una lotta che dal 2014 si è trasformata in una devastante guerra civile.
Gli Houthi hanno occupato il nord dello Yemen e controllano la capitale Sanaa e lo strategico porto di Hodeida. Il loro predominio non è stato intaccato dall’intervento a partire dal 2015 delle forze di Riad e degli Emirati Arabi Uniti richiesto dal governo yemenita il quale ha sede provvisoria ad Aden. Dopo il 7 ottobre essi hanno cominciato a lanciare attacchi nella regione in solidarietà con il movimento sunnita di Hamas e, insieme a quest’ultimo e alla galassia di movimenti sciiti in Iraq, Siria e Libano, compongono oggi un Asse della resistenza diretto in gran parte da Teheran.
La forza dei ribelli yemeniti
A garantire il “successo” dei miliziani yemeniti è il supporto che essi ricevono dall’Iran e da Hezbollah. Funzionari occidentali hanno confermato al Wall Street Journal che il regime teocratico sta inviando armi sempre più sofisticate ai ribelli adoperate per tenere sotto scacco una vitale via di navigazione. Tra i carichi inviati ci sono strumenti che disturbano i segnali dei droni e componenti per razzi e missili a lungo raggio. Il New York Times riferisce che i fedayn con la presa della capitale una decina di anni fa sono entrati in possesso dell’arsenale dell’esercito regolare e durante il conflitto contro i sauditi hanno sviluppato la capacità di nascondere armi in aree urbane e di lanciare missili dal retro di veicoli per poi dileguarsi.
Consiglieri iraniani e del movimento libanese sono inoltre presenti in loco per aiutare nella pianificazione delle operazioni di pirateria. L’uomo di riferimento di Teheran in Yemen è il generale Abdul Reza Shahlai, sfuggito ad un tentativo di assassinio con i droni la stessa notte in cui Washington nel 2020 eliminò il generale Qassem Soleimani. Su di lui pende una taglia da 15 milioni di dollari.
L’escalation contro gli Houthi
Gli americani, prima di ricorrere ai bombardamenti, hanno provato ad intaccare la potenza degli Houthi colpendo la fornitura di armi. Ne è un esempio il sequestro compiuto l’11 gennaio dai Navy Seal di un’imbarcazione che trasportava tecnologia militare avanzata iraniana. Durante questa missione però due soldati Usa sono rimasti uccisi.
Al momento gli Stati Uniti stanno valutando un’escalation contro i miliziani che unirebbe una campagna di bombardamenti più aggressiva contro i siti da cui partono i missili ad operazioni volte a bloccare il trasferimento di armamenti da parte di Teheran. Un piano che andrà calibrato con attenzione per evitare l’intervento diretto del regime degli ayatollah. Nel frattempo, Ali Bagheri, viceministro degli Esteri iraniano ha negato il ruolo del suo Paese nella crisi in atto dichiarando che “la resistenza ha i propri strumenti e agisce in base alle proprie decisioni e capacità”. Gli analisti hanno già commentato che l’Iran è ormai esperto nel negare la responsabilità delle azioni dei suoi proxy e nel far fare il lavoro sporco ad altri. Ma adesso la resa dei conti per i mandanti di queste spericolate iniziative si fa più vicina.