Per giornali e tv controllati dal regime il problema è Mohamed Salah: si è fatto male durante la Coppa d’Africa e anziché rimanere con i compagni ha preferito tornare a Liverpool dove gioca. Non un bel gesto, dicono i commentatori, visto che è il capitano della nazionale di calcio, un simbolo per l’intero Paese. Per l’egiziano medio, invece, la preoccupazione quotidiana si chiama eish, che in dialetto arabo-egiziano vuol dire pane ma anche vita. La coincidenza di significati non sembra casuale: due terzi dei 107 milioni di egiziani campano praticamente solo di pane venduto a prezzi sussidiati dal governo. Anche per questo il consumo pro-capite è tre volte tanto quello degli altri Paesi.
Per mantenere i prezzi bassi lo Stato spende 3 miliardi di dollari l’anno, il 2,6% del bilancio pubblico. Tutte le volte che qualche evento internazionale minaccia di far saltare i sussidi, nel Paese si respira aria di rivolta. La scorsa settimana perfino il più che addomesticato Parlamento ha fatto sentire la sua voce: in una seduta definita dai giornali «tempestosa», 90 deputati hanno chiesto le dimissioni del ministro dei rifornimenti interni Ali Mosheli, per non aver saputo impedire gli aumenti delle cipolle (ingrediente fondamentale della dieta dei più poveri), di riso e zucchero. Ufficialmente l’inflazione è tra il 35 e il 40%, ma quella dei prodotti alimentari supera il 70%; per gli abitanti delle immense periferie, costretti a vivere con non più di 2 dollari al giorno è un dramma.
Meno drammatico ma altrettanto preoccupato è l’atteggiamento di osservatori e funzionari internazionali che devono fare i conti con le dissestate finanze dello Stato. L’Egitto è tecnicamente sull’orlo dell’insolvenza: se si eccettua l’Argentina è il Paese che deve più soldi al Fondo monetario internazionale, l’indebitamento estero è esploso dai 37 miliardi del 2010 ai 164 di oggi; metà degli introiti statali servono per pagare gli interessi sul debito. L’anno scorso la sterlina egiziana ha perso metà del suo valore ed è stata la peggiore valuta in assoluto a livello mondiale.
Un quadro drammatico, che ora la crisi del Mar Rosso rischia di far saltare definitivamente: nel 2023 gli incassi del Canale di Suez (9 miliardi di dollari da gennaio a giugno) erano stati un’indispensabile fonte di valuta pregiata che aveva consentito alla banca centrale di sostenere l’economia e di finanziare le importazioni. Ora il traffico (e i relativi introiti) sono diminuiti del 40%. Il risultato è che, come ha scritto qualche settimana fa l’Economist, nessuno crede più nel futuro dell’economia egiziana, ma tutti sono terrorizzati che salti per aria.
A mettere il bastone tra le ruote all’andamento della congiuntura non sono solo le crisi più recenti, dalla invasione ucraina alla guerra di Gaza, che hanno alzato i costi delle materie prime alimentari e azzoppato fonti importanti di valuta come il turismo. A pesare è la struttura stessa del sistema, che si regge, in molti settori, su un sostanziale monopolio di gruppi finanziari legati alle forze armate. Dal cemento all’acciaio, fino agli elettrodomestici e alle costruzioni, la spina dorsale dell’economia è rappresentata da società di diretta emanazione dell’Esercito (che domina il campo), dell’Aviazione e della Marina. L’intreccio risale già ai tempi di Nasser, ma l’attuale capo di Stato Abdl-Fattah Al-Sisi lo ha perfezionato e reso onnipresente. Il complesso militar-industriale è fonte di corruzione e inefficienza, ma gode di inarrivabili privilegi come l’esenzione da gran parte delle tasse e degli oneri doganali e il controllo di fatto di molte amministrazioni pubbliche (spesso affidate a militari in pensione). Il risultato è quello di bloccare ogni significativo investimento nel settore privato. E di sprecare quantità inimmaginabili di soldi in progetti faraonici come la costruzione di una nuova capitale piena di grattacieli collegata al Cairo da una avveniristica monorotaia, che corre (sopraelevata, chissà perché) in pieno deserto.
Nel 2022 il Fondo monetario internazionale ha concesso un prestito di alcuni miliardi di dollari in cambio di un ridimensionamento del ruolo delle Forze Armate nell’economia. «Per qualche tempo Al-Sisi ha mostrato di voler mantenere gli impegni presi», spiega Alessia Melcangi, docente alla Sapienza di Roma e analista per Africa e Medio-Oriente all’Ispi di Milano. «Poi in alcuni settori dell’Esercito si sono fatti sentire i primi malumori. Le riforme sono finite in stand-by per mantenere il consenso tra gli ufficiali, che costituiscono il cuore del potere politico». La mancata attuazione delle richieste del Fmi, non sembra, però, aver contrariato l’organizzazione con sede a Washington, che in questi giorni ha spedito al Cairo una delegazione con l’incarico di negoziare un nuovo prestito. All’inizio si è parlato di tre miliardi, poi di cinque, gli analisti dell’Agenzia di rating Moody’s hanno scritto che potrebbero alla fine diventare addirittura 10. «Di solito il Fondo monetario è molto rigoroso nelle sue prescrizioni», aggiunge Melcangi. «In questo caso sembra comportarsi con molta maggiore tolleranza, sembra che si voglia evitare il peggio».
Sul fatto che un default dell’Egitto faccia paura a molti non ci sono dubbi. Il Paese più popoloso del Medio Oriente potrebbe diventare un ulteriore elemento di destabilizzazione in una zona già martoriata. Con i relativi rischi di riposizionamenti strategici. L’altro ieri Al Sisi ha inaugurato una centrale nucleare realizzata con tecnologia russa. Poi si è collegato in videoconferenza con Putin. Che senza risparmiare sorrisi ed elogi per il partner, ha detto che si impegnerà perché la domanda di adesione del Cairo ai cosiddetti Brics, il gruppo di cui la Russia fa parte insieme ad altri colossi come India e Cina, venga accettata al più presto. Una specie di corteggiamento che il leader egiziano ha dimostrato di gradire.
In più pesano i pericoli legati a una ripresa dell’estremismo islamico. Al-Sisi è salito al potere deponendo il presidente eletto dai Fratelli Musulmani. «La parola chiave in questo caso è polarizzazione», conclude Melcangi. «La repressione è stata forte. Gli oppositori di Al-Sisi sono in galera o sono scappati in qualche Paese arabo che ha dato loro asilo. Ma tutti sono molto più radicali che in passato. E il focolaio cova sotto la cenere».