Ieri il Papa ha pronunciato uno splendido discorso sull’avarizia e sulla vanità di accumulare voracemente beni terreni, solo per dimenticare cosa ci attende alla fine: un sepolcro nel quale è difficile parcheggiare il Suv e inutile sfoggiare gioielli. Ah, se bastasse un assegno per non morire. Il mondo purtroppo non va così. Va bene arricchirsi, anche molto, ma senza adorare il denaro come fosse una divinità. Francesco inoltre ci ricorda che l’avarizia «non è un peccato che riguarda solo le persone che possiedono ingenti patrimoni, ma un vizio trasversale, che spesso non ha nulla a che vedere con il saldo del conto corrente». Anche i poveri possono essere avari, perché l’avarizia è una «malattia del cuore», alla lunga inaridisce l’anima e spegne i sentimenti: «Noi possiamo essere signori dei beni che possediamo, ma spesso accade il contrario: sono loro alla fine a possederci».
Il Santo Padre ha citato al proposito un passo del Vangelo di Matteo: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano». E qui, con gusto del paradosso, ha aperto il più inatteso degli incisi: «In altri casi, sono i ladri a renderci questo servizio (cioè ad avvertirci della nostra avarizia, ndr). Anche nei Vangeli essi hanno un buon numero di apparizioni e, sebbene il loro operato sia censurabile, esso può diventare un ammonimento salutare».
Di fronte a questo furfantesco «servizio», avendolo ricevuto più volte ovviamente senza averlo mai chiesto, è quasi impossibile non peccare di ira funesta. Francamente, dopo essere stati derubati, svaligiati e magari alleggeriti di un Vespa, riesce difficile porgere al ladro ammonitore l’altro portafogli, l’altro appartamento o l’altro ciclomotore. Ad averceli, poi.