Trent’anni fa Silvio Berlusconi entrò nella politica italiana rivoluzionandola da cima a fondo. Ma di quell’esperienza irripetibile si parla con i luoghi comuni di sempre: la calza sulla telecamera; il fatidico incipit del suo messaggio al Paese, «l’Italia è il Paese che amo»; l’inconfondibile giacca doppio petto. E ancora i tanti particolari che hanno creato il mito. Dell’intuizione che fu alla base di quel momento quasi niente, come se il Cavaliere fosse un inciampo della Storia, fosse altro rispetto alla politica. Invece, quella fu un’operazione squisitamente politica. Di quelle che non se ne vedono più. Incomprensibile alla sinistra di ieri e di oggi e ad altri che per dare la spiegazione di un successo nato solo dalla capacità di interpretare il Paese tirano in ballo di tutto. I più stolti addirittura la mafia.
Quello che invece Berlusconi offrì agli italiani fu un inedito populismo moderato che mise insieme tutti gli orfani dei tradizionali partiti di governo della prima Repubblica, privati da Tangentopoli di una rappresentanza, aggiungendo lo spirito liberale dei ceti medi e del popolo delle partite Iva. E che questa fosse l’identità di quel mondo lo dimostra il fatto che quell’esperienza trovò il suo approdo naturale nel popolarismo europeo. Ecco perché certi paragoni con il presente non calzano: il Cav si inventò un populismo di centro, cosa che gli permise di allearsi con i populismi di destra, contrapponendosi ad una sinistra che per esorcizzare la sua sconfitta storica si dedicò ad una disputa sul nome restando fuori dalla realtà; oggi, invece, c’è un populismo di destra che tenta di spostarsi al centro e si scontra con un populismo di sinistra in salsa «woke» (il Pd della Schlein ne è una delle anime) che trent’anni dopo continua ad essere ancora su Marte. Sono tornati ad essere orfani, senza una rappresentanza proprio buona parte di quei mondi – a cominciare dal ceto medio – a cui Berlusconi con la sua discesa in campo aveva garantito una casa. Del resto basta fare un paragone tra i dati delle elezioni del 1994 e quelle di oggi per averne prova: nelle elezioni di trent’anni fa ci fu un’affluenza dell’86,7%, nelle ultime si è registrato il record storico di bassa affluenza con il 63,91% (9 punti sotto il record negativo precedente delle elezioni del 2018). Tra l’affluenza alle urne del 2022 e quella del 1994 ci sono 23 punti percentuali in meno, un agglomerato elettorale che oggi rappresenterebbe il partito di maggioranza relativa. Forza Italia del 1994 con il 21% ebbe 8 milioni e 136 mila voti, Fdi nel 2022 con il 26% dei voti ha preso 7 milioni e 300 mila voti: 850 mila elettori di differenza.
Ecco gli elettori del populismo moderato del ’94 si sono dispersi. In parte sono rimasti a Forza Italia. Altri scampoli sono finiti nei partitini di centro di oggi che con le loro divisioni sono il problema non la soluzione per un’ipotetica ricomposizione. Ma i più, appunto, non hanno una casa, o meglio, alle elezioni rimangono a casa. Se il centro-destra vuole riconquistarli (parlo non a caso di centro-destra e non di destra-centro) deve riprendere le priorità della rivoluzione berlusconiana, a cominciare dal fisco per finire alla giustizia. L’attuale premier dovrebbe completare la sua metamorfosi, o la coalizione attrezzarsi in modo tale da rappresentare quegli elettori che se tornassero alle urne modificherebbero la geografia politica del Paese nel profondo.
Un’ipotesi tutt’altro che impossibile. Quella «discesa in campo» trent’anni fa lo ha dimostrato cambiando un copione che nella sinistra molti avevano già scritto. In una campagna elettorale il Cav inventò il bipolarismo italiano con i suoi difetti e i suoi pregi e rese potabile la destra che era sempre stata esclusa dal gioco democratico. Una notte, un mese prima della morte, – Berlusconi mi telefonò dal San Raffaele – era appena passata l’una – tormentato dal dubbio di come l’avrebbero ricordato. Non si faceva illusioni: «Quello che la sinistra non mi ha mai perdonato, per cui mi ha perseguitato per trent’anni sui giornali e nelle aule dei tribunali, è stata proprio la discesa in campo. Pensavano di aver già vinto e, invece, io sono stato l’imprevisto che gli ha sbarrato la strada. Me l’hanno fatto pagare a caro prezzo e me la faranno pagare anche da morto».