I fatti di cronaca degli ultimi tempi hanno mostrato quanto i social possano essere potenzialmente pericolosi e quando con la “parola” si può arrivare a far male. Per approfondire il tema abbiamo parlato con la comunicatrice, docente e divulgatrice Flavia Trupia autrice del libro: Viva la retorica sempre! (Piemme), che spiega come la retorica (l’eloquenza come disciplina del parlare o dello scrivere, ndr) può essere definita un vero e proprio strumento di persuasione, qualcosa che può far ottenere quello che si vuole, ma anche difendersi da ciò che può farci del male.
Riprendendo il sottotitolo del suo libro, quale è il super potere della parola?
“La parola è un potente sovrano” diceva Gorgia da Lentini (discepolo del filosofo Empedocle e dei retori siracusani Corace e Tisia inventori della retorica, ndr). È capitato a tutti, almeno una volta, di far sentire meglio un amico che stava male, solo attraverso la forza delle nostre parole. Ed è capitato a tutti, più di una volta, di dire la cosa sbagliata al momento sbagliato e di pentirsi nel momento stesso in cui la stiamo dicendo. Con le parole possiamo ferire, fomentare e poi abbandonare, far sentire una persona meno di niente. Conoscere la retorica ci aiuta a programmare l’effetto delle nostre parole: a far emergere la nostra volontà di aiutare, ma anche a essere consapevoli delle possibili conseguenze brutali del nostro dire”.
Secondo lei saper usare le parole come può cambiare le nostre vite?
“La retorica gode di pessima fama. Si dice che si mette in campo quando si vuole nascondere un’intenzione opaca, quando non si ha nulla da dire o quando si vuole gonfiare il discorso per apparire più importanti di quello che siamo. In realtà la retorica è indispensabile per far emergere le nostre idee e i nostri progetti. È moralmente sbagliato far apparire come positiva una cattiva intenzione, solo mettendo in campo la nostra capacità oratoria; ma è un peccato mandare al massacro una bella idea, solo perché non siamo in grado di raccontarla. In Italia, a scuola e all’università, quasi nessuno ci insegna a raccontare i nostri progetti. Tranne per qualche sporadico episodio, la retorica si studia solo per l’interpretazione di un testo letterario. Leggiamo una poesia e facciamo l’esercizio di cercare la metafora e il chiasmo. Raramente, invece, si fa pratica sulla retorica che ti aiuta a parlare meglio, a dare gambe e respiro alle idee. È una questione di esercizio, esattamente come andare in palestra. Una volta allenati, però, diventiamo più forti: più bravi a scuola, più incisivi nei colloqui di lavoro, più precisi e coinvolgenti nelle presentazioni aziendali, addirittura più efficaci nell’esprimere i nostri sentimenti nelle relazioni interpersonali”.
In quale modo la retorica ci aiuta a migliorare?
“In due modi. La retorica può rendere potente l’espressione del nostro pensiero e può reto-vaccinarci, ossia aiutarci a riconoscere il linguaggio della manipolazione e a difenderci da esso. L’arte del dire, infatti, ha una doppia natura. Può essere positiva o negativa. È una Ferrari. Con quell’auto bella e potente possiamo correre in pista e mostrare la capacità inventiva del made in Italy o investire i pedoni. Si fa l’errore di dare la colpa alla retorica per la sua mancanza di etica. Ma l’etica è nella persona e nelle sue scelte, non nella tecnica che usa. Mi spiego meglio. Con la retorica possiamo spingere le donne a fare la mammografia e a salvarsi dal tumore al seno, e a non farla; possiamo convincere un adolescente a non fumare, e a fumare; possiamo invogliare i cittadini a fare la raccolta differenziata, e a buttare tutti i rifiuti in un unico secchio e così via… Torno alla domanda. La retorica dà forza alle nostre parole. Ma, se la conosciamo, abbiamo in mano uno strumento per difenderci dalla manipolazione”.
Quali sono le parole che non andrebbero mai usate?
“L’espressione che mi fa impazzire è: “è buon senso”. È un modo per fa apparire il proprio personalissimo punto di vista come universale, neanche fosse il teorema di Pitagora. Dico una scemenza qualsiasi e la nobilito facendola apparire come verità assoluta, appiccicandoci l’etichetta del “buon senso”. In realtà quello non è “buon senso” è il “tuo senso” che vuoi imporre agli altri. In campo aziendale, una parola che trovo sempre insidiosa è “policy”. In nome della policy ci si lava la coscienza e si scaricano le responsabilità. “Non paghiamo gli stagisti, è la nostra policy”, “non possiamo darle l’aumento nel primo anno di lavoro, è la nostra policy”. Ma chi è questa signora Policy, così severa? Perché non posso andare a parlarci? L’appello alla policy può essere un modo per non rispondere in prima persona di scelte molto precise”.
Nel suo libro ce ne sono davvero molti, ma quale è il consiglio più importante che si sente di dare?
“Prepararsi. Per diventare oratori migliori, dobbiamo prepararci. Un’idea tutta italiana vuole che oratori si nasca, non si diventi. Non è così. I grandi oratori del passato e della contemporaneità si preparano con grande pignoleria prima di pronunciare i loro discorsi. Sconsiglio vivamente di leggere il proprio discorso. Solo pochissimi lo sanno fare senza annoiare mortalmente l’uditorio, tra questi possiamo citare papa Francesco che riesce a essere vivace e coinvolgente anche davanti a un leggio. A tutti gli altri, consiglio di buttare giù una scaletta del discorso e ripeterlo ad alta voce tante volte. Anche progettando i movimenti del corpo che accompagnano le argomentazioni. Insomma, è utile creare una regia. Una regia di sé stessi”.
Scrive che le parole ci aiutano anche a riconoscere la manipolazione come è possibile?
“La conoscenza della retorica ci offre una sorta di detector, un sensore speciale, per individuare la manipolazione. Non c’è nulla di magico in questa abilità. Basta conoscere le fallacie argomentative, che dovrebbero essere studiate a scuola. Si tratta di osservazioni che sembrano logiche, ma non lo sono. Della logica hanno solo il vestito. Per esempio la fallacia della falsa dicotomia o del falso dilemma, induce a una scelta forzata e non necessaria. La incontriamo nell’espressione “o con me o contro di me”. Posso sempre non farmi ingabbiare da questa scelta e dire “né con te né contro di te”. Oppure la fallacia del piano scivoloso o della brutta china che prospetta un epilogo disastroso di una situazione o di una scelta: “si comincia con una sigaretta e si finisce drogati”. Fumare fa male, va detto, ma non necessariamente i fumatori finiscono per drogarsi”.
Quello che lei spiega in maniera importante e di grande attualità, è il fatto che con la parola si può fare e farsi male
“Le parole possono essere feroci. La storia ci insegna che, anche attraverso quelle, si può mandare un popolo al massacro. In un contesto diverso, i social ci devono mettere in guardia sul fatto che un commento cattivo può distruggere una persona. Trovo incredibile che spesso siano le donne a insultare le altre donne per i loro presunti difetti fisici, spesso anche improvvisandosi medici che fanno una diagnosi e consigliano una cura: “sei anoressica”, “dovresti mangiare di più”, “dovresti mangiare di meno”… Allo stesso modo, se usiamo parole aggressive, dobbiamo sapere che ci possono essere delle conseguenze. È più facile attaccare che reggere un contrattacco. Molti personaggi pubblici sono specializzati nella tecnica del “dissing”, dell’attaccare pubblicamente un altro personaggio. Alla fine dei conti, entrambe le parti hanno un vantaggio di notorietà. Ma stiamo parlando di persone consapevoli delle conseguenze di un confronto, che può essere caratterizzato anche da colpi bassi. Non tutti però sono attrezzati come Sgarbi e Fedez, veri professionisti del genere. Senza contare, poi, che anche loro avranno le loro sensibilità”.
Come si impara e quanto tempo ci vuole per cambiare con la retorica?
“Poco. La maggior parte delle persone non ha avuto la possibilità di seguire un corso in cui si insegna la retorica, ossia le tecniche per parlare in pubblico. Quasi tutti sono autodidatti e fanno quello che possono. Per migliorare basta conoscere poche strategie, che fanno subito la differenza. Poi però, per diventare ottimi oratori, ci vuole tanto esercizio. Con la mia società, Per La Retorica, insieme all’attore e regista Enrico Roccaforte, abbiamo organizzato varie Guerre di Parole tra categorie diverse. Molte edizioni hanno visto gli studenti universitari confrontarsi con i detenuti. Hanno vinto sempre i detenuti. In due occasioni abbiamo messo a confronto i liceali con gli avvocati penalisti. Hanno vinto i liceali una volta e gli avvocati l’altra. Ma, con pochi incontri preliminari, tutte le persone coinvolte sono state in grado di sostenere un dibattito con abilità e profondità. E il dibattito ci aiuta a comprendere le varie facce di un tema”.
Che venisse usata dai politici era cosa nota, ma come può essere usata anche dai comici e dai rapper?
“I comici e i rapper sono due categorie alle quali chi vuole imparare l’arte oratoria deve guardare con attenzione. C’è molto da imparare. I comici hanno il contatto con la sala. Nei club dove si esibiscono, si trovano di fronte gente che mangia, beve o chiacchiera. Devono essere in grado di catturare la loro attenzione. Inoltre, devono trasformare le battute che vengono dal pubblico, anche quelle critiche, in nuove occasioni di comunicazione, senza perdere la concentrazione. È una situazione simile a quella che deve affrontare un oratore: il signore che chiacchiera, quella che guarda lo smartphone, quello che si trova lì solo perché dovrà parlare dopo e sta ripassando mentalmente il suo discorso, quello che non sarà d’accordo a prescindere, oppure il tuo collega che ti odia perché vorrebbe stare al posto tuo… I rapper hanno, invece, la capacità di sintetizzare un concetto complesso con una figura retorica. Per esempio Marracash, nella sua canzone Cosplayer, usa un paradosso, un’affermazione che contrasta con l’opinione diffusa. Sottolinea come il politically correct, ci voglia giustamente rispettosi delle differenze etniche e di identità di genere, dimenticando però le sensibilità legate alle differenze di censo. La ricchezza sì, puoi sbatterla in faccia a chi non ce l’ha: Oggi che possiamo rivendicare di essere bianchi, neri, gialli, verdi, o di essere cis, gay, bi, trans o non avere un genere. Non possiamo ancora essere poveri, perché perché tutto è inclusivo a parte i posti esclusivi, no? Come dirlo meglio?”