Pompeo Locatelli, profondo conoscitore dei mari della finanza italiana, qualche giorno fa ci ricordava che privatizzare è un gran bel verbo, perché esprime il significato di una iniziativa virtuosa, profittevole, economicamente saggia, un impegno che contiene una promessa di crescita e di stabilità. A patto però che venga realizzata con una certa perizia e soprattutto all’interno di una visione. Fu il governo a guida Carlo Azeglio Ciampi che esaltò le virtù delle privatizzazioni, avviando al mercato il Credito Italiano e la Comit, cui seguirono Eni, Enel, Imi, Stet-Telecom, Ina, Autostrade e altre ancora. Era il 1993 e l’obiettivo del Tesoro, allora diretto da Mario Draghi, era fare cassa per alleggerire il bilancio pubblico e rendere più efficiente la gestione di quelle imprese che, fra l’altro, nella quotazione in Borsa avrebbero trovato argomenti solidi per frenare l’ingordigia della politica.
Trent’anni dopo il bilancio non è del tutto positivo – basti pensare ai casi Telecom, Alitalia, Autostrade – ma nel complesso si può dire che era un passo obbligato, non fosse altro per il fatto che ci ha aperto le porte dell’Europa. In anni recenti, a quelle privatizzazioni si sono poi aggiunte Poste ed Enav, di cui è stata collocata una minoranza del capitale. Ebbene, nella manovra 2024 il governo Meloni ha previsto che in tre anni lo Stato debba incassare 20 miliardi dalla vendita di propri asset patrimoniali, con l’obiettivo di ridurre il debito pubblico. Le prime ipotesi emerse concernono collocamenti in Borsa di quote ridotte di società controllate dal Tesoro (Eni e Poste); oppure quotazioni di partecipazioni di minoranza di società attualmente a totale proprietà pubblica (Ferrovie); o, infine, cessioni di quel che resta del capitale di partecipate come nel caso di Banca Mps. Si può parlare di privatizzazioni? Non esattamente. Se si esclude il caso delle Ferrovie, si tratta di meri collocamenti sul mercato di quote minoritarie che incidono nulla sulla gestione di aziende che sono, e restano, a controllo pubblico. Perciò, titolare in prima pagina «L’Italia in vendita», come ha fatto il quotidiano Repubblica, oltre che enormemente esagerato è anche segno di scarso rispetto dei fatti. Quel titolo, semmai, andava bene trent’anni fa.
Tornando alla manovra del governo Meloni, per giudicare la bontà della scelta, ovvero l’importanza di operarne altre, è utile ricordarne i presupposti logici. Solo così si possono comprendere gli effetti di decisioni che potrebbero rivelarsi sostanzialmente prive di impatto sul debito e forse anche causa di peggioramento dei conti pubblici. Premessa necessaria sul debito: anche se è di moda misurarlo in valore assoluto, a fini delle valutazioni di Bruxelles rileva solo in termini di rapporto con il Pil. Peraltro, questo dato da solo ha ben poco significato, perché deve essere accompagnato dalla capacità di crescita di un’economia. È infatti chiaro che assume particolare rilievo la curva del Pil, perché essa da sola, incrementando il denominatore del rapporto, causa automaticamente una sua progressiva riduzione, e quindi configura la sostenibilità nel tempo del debito stesso.
La sciagurata impostazione di uno dei parametri del Trattato di Maastricht – l’obiettivo (conseguito solo sporadicamente da pochi paesi europei) di avere un rapporto debito/Pil inferiore al 60%, senza considerare il tasso di crescita del Pil stesso – ha causato debolezza cronica nell’area euro, sfiancando le economie europee rispetto, per esempio, a quella americana. Il motivo è presto detto: se la riduzione del debito, magari fatta con dannosissimi tagli lineari, causa una più che proporzionale riduzione del Pil, ecco che l’indice peggiorerà a danno della crescita economica, in una spirale negativa che alla fine porterà alla recessione.
Attualmente il debito pubblico italiano pesa per circa 2.850 miliardi, equivalente al 141% del Pil. È evidente che i 20 miliardi rivenienti dalle cessioni patrimoniali (sempre che si riesca a realizzarle nei tempi indicati) sono privi di impatto significativo sulle due grandezze, e la decisione di procedere con le cessioni non può quindi essere motivato solo da tale obiettivo. Anzi, a ben vedere, la cessione di quote azionarie di società a controllo statale, di primo acchito causa un danno alle casse pubbliche. Basti dire che oggi il costo delle emissioni di Buoni del Tesoro a 5 anni si aggira intorno al 3,5%. A fronte di ciò abbiamo l’azione Eni che, solo per la parte dividendo, rende il 6% circa sulla base dell’odierna quotazione di 14,3 euro. Ciò significa che se fossero cedute azioni Eni per 2 miliardi come ipotizzato (per un dividendo quindi pari a 120 milioni), il Tesoro soffrirebbe di un minore introito netto di almeno di 50 milioni l’anno. Se si immagina l’operazione su tutti i 20 miliardi attesi, si perviene a una perdita annua in linea-dividendo superiore a 500 milioni. Ciò che però conta in questa visione è il segnale di buona predisposizione che viene inviato al mercato, presso il quale sarà poi meno oneroso rifinanziare il debito in scadenza.
Diverso il caso di vendita di una quota di minoranza di società interamente pubbliche, come per esempio le Ferrovie o la controllata Anas. Le felici esperienze di Eni, Enel, Terna, Snam, solo per ricordare i casi più brillanti, dove tutti hanno avuto benefici, incoraggiano in questo senso. Ma il motivo non sarebbe la pur ingente raccolta di risorse destinata a ridurre il debito, bensì il miglioramento della gestione e del servizio favorito dalla governance ontologicamente più trasparente di una società quotata. In più va considerato che nel caso delle Ferrovie si avrebbe una ulteriore riduzione del debito pari a 10 miliardi ogni anno: sono le risorse necessarie al gruppo per realizzare gli investimenti che oggi gravano direttamente sul maxi-debito del Tesoro.
Tuttavia, qualora l’obiettivo primo del governo diventasse una riduzione non simbolica del debito, ancora più interessante sarebbe la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, valutato 300-400 miliardi (comprendendo quello degli enti locali), oggi assai poco produttivo. Di recente Carlo Messina, ceo di Intesa Sanpaolo, ha ribadito la disponibilità della sua banca a partecipare a un progetto finanziario-immobiliare capace di mobilitare 150-200 miliardi interamente destinati a ridurre il debito. È un progetto non nuovo, sottoposto a tutti i governi che si sono avvicendati negli ultimi 15 anni ma che per un motivo o per l’altro non ha mai superato la fase della proposta. Eppure si avrebbe un patrimonio che, se ben gestito da privati mossi da logiche di profitto, potrebbe anche generare benessere, lavoro e maggiore gettito fiscale, grazie alla produzione di reddito; risparmiando in aggiunta i costi di una burocrazia inadeguata cui oggi questo patrimonio è affidato. Una riflessione in più tra quelle che quotidianamente si affollano sulla scrivania del ministro Giancarlo Giorgetti.