Mentre i vecchi compagni in tuta blu da lavoro (e gli intellettuali che su quel lavoro facevano retorica) perseguivano un’utopia egalitaria, l’impossibile azzeramento delle differenze che sono un tutt’uno con l’umano, questi loro nipotini degeneri coltivano quella che il sociologo canadese Mathieu Bock-Côté ha battezzato «utopia diversitaria». Il trionfo di tutte le differenze a scapito di una, individuata come pattumiera della storia e causa di tutti i mali terreni: il barbaro uomo bianco occidentale.
La Nuova Sinistra è strutturalmente anti-occidentale, poiché mentre si raduna nelle Ztl delle metropoli occidentali al caldo delle libertà occidentali, si dedica ossessivamente al culto dell’Altro purchessia. L’immigrato astrattamente ed esoticamente inteso sempre e comunque come vittima della modernità (quasi una riedizione perbenista del mito rousseauiano del buon selvaggio); il membro della comunità Lgbt idealizzato come tale, individuo incatenato alla sua sessualità, in un’estremizzazione ulteriore del motto femminista «Il personale è politico»; perfino l’oppresso dal clima, che per gli utopisti diversitari vuol dire sempre oppresso dal capitalismo (in un senso aprioristico e moralista che, come vedremo, era assolutamente bandito dalla pur serrata critica marxiana).
Insomma, l’Altro è qualunque appartenente a qualunque vera o presunta minoranza discriminata, basta che non sia il Grande Discriminatore, il Colpevole già scritto di questa mediocre trama politicamente corretta che è la contemporaneità, appunto l’uomo bianco occidentale, soprattutto il retrogrado lavoratore bianco occidentale, genericamente colonialista, magari addirittura eterosessuale, sicuramente inquinante e volgare. Siamo qui a un punto focale del cambio di paradigma avvenuto nella cultura di sinistra (quindi nella cultura di massa, essendo il mantenimento dell’egemonia una delle poche costanti tra vecchio e nuovo mondo).
L’elemento di fondo che connota la Sinistra Woke, la sua essenza filosofica e comportamentale, è invariabilmente costituito da quella che il grande pensatore conservatore britannico Roger Scruton chiamava “oicofobia”. Una malattia dello spirito, uno «stadio attraverso il quale normalmente passa la mente adolescenziale» che viene cristallizzato in patologia intellettuale e collettiva, secondo l’immagine del filosofo, e che consiste nella compulsiva «esigenza di denigrare i costumi, la cultura e le istituzioni che sono identificabili come nostri».