L’errore di privatizzare a metà

Privatizzare è un gran bel verbo, esprime il significato di un’iniziativa virtuosa, profittevole, economicamente saggia. E infatti nel nostro Paese si fa molta fatica a coniugare quel verbo con la realtà.

È come per il celebre Visconte di Italo Calvino, qui le privatizzazioni, hanno avuto la caratteristica di essere sempre dimezzate. Cioè, fatte a metà. E perciò piene di difetti all’origine. Da qualche giorno il tema è tornato di stringente attualità perché l’esecutivo ha in animo di attuare alcune cessioni. Come la più eclatante – la vendita del 4% del capitale dell’Eni. Che segue la mossa della cessione del 25% di Monte dei Paschi. Tra l’una e l’altra le casse dello Stato dovrebbero introitare circa 3 miliardi. Per provare a ridurre il debito pubblico operazioni di questo tipo sono in ogni caso meritevoli.

Rimane però aperta la questione di fondo: fino a che punto l’Italia è disposta a cogliere in pieno la novità culturale delle privatizzazioni. Ovvero a coniugare in modo corretto il verbo privatizzare?

Attuare solo parzialmente una politica economica di cessioni non può che determinare risultati parziali. E alla lunga insoddisfacenti. Ad esempio, i casi dell’ex Ilva di Taranto come quello di Alitalia dicono che l’assenza di una visione davvero mercantile, nel senso di una cultura liberale fatta per davvero propria, è destinata a produrre esiti monchi e poco o nulla redditizi. La tattica, per definizione, alla lunga non paga. Promette poco e poco ottiene. La strategia è ben altro. È impegno che contiene una promessa di crescita e di stabilità. Una promessa virtuosa che finalmente permetterebbe di coltivare la speranza di mettere il Paese, il Paese reale, in sicurezza.

La nostra economia necessita di una illuminante politica industriale. Che offra il destro alle imprese di misurarsi con le sfide più significative. Come lo è certamente quella delle privatizzazioni.

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