La saetta improvvisa, nel cielo buio della sera. Poi, il rombo di tuono. Luigi Riva non è più, naufrago della sua isola e di un mondo del calcio al quale aveva dato gloria immensa. Se ne è andato qualche attimo prima che due squadre italiane giocassero una partita altrove, lontano da tutto, distante da quello che Gigi ha amato in silenzio, mai apparendo da ex ma essendo ancora tale e quale, un ragazzo diventato uomo in fretta, nato nella terra varesotta di Leggiuno, subito costretto ad assaporare il sale della vita, aveva 9 anni quando perse il padre Ugo, a sedici se ne andò la madre Edis e ancora, dopo, la sorella Candida spenta dalla leucemia.
Giocava nell’oratorio vicino alla casa di via San Primo 22, lo mandarono in collegio a Viggiù, poi a Varese e infine a Milano, di notte scappava, sognava la libertà che l’esistenza aspra gli aveva già tolto. Una giovinezza di piccole cose, la spiaggia di Reno sul lago Maggiore e Santa Caterina del sasso, quelle cartoline le conservava come icone nella dimora sarda. Giocava nel Laveno e lavorava all’officina Slimpa, aveva gambe secche, capelli ricci, lo chiamavano Hud il selvaggio, come nel film con Paul Newman, bello come lui, andava a pesca, era il suo piccolo mondo.
Il postino gli recapitò la convocazione dell’Inter, era la squadra del cuore, già immaginava San Siro ma quelli del Laveno strapparono il telegramma. Non se ne fece nulla. Giorni difficili ma il pallone regalava la possibilità di correre con la fantasia, lo chiamò la nazionale juniores per una partita contro la Spagna, era il 13 marzo 1963, finì 3 a 2 e Hud segnò il gol vittoria. In tribuna stavano Arrica, Silvestri e Tognon, dunque il Cagliari, 37 milioni sull’assegno, affare fatto, prima che Dall’Ara, presidente del Bologna ne offrisse 50.
L’isola del tesoro, dunque, Gigi nulla sapeva di quella terra di pecorai, così si esprimevano gli ultras. Ci sbarcò con la testa grigiastra di cattivi pensieri e il malanimo di una gioventù mai fiorita veramente, non aveva voglia di vedere, incontrare, parlare con nessuno. Ritrovò il senso della vita con il Cagliari, Hud stava trasformandosi nei muscoli, scaricava il sinistro potente, erano gol e la gente dell’Amsicora intuì l’eroe. Amsicora era il soldato che si ribellò ai romani e, dopo la sconfitta ultima, si suicidò piuttosto che arrendersi. Amsicora è stato dunque per destino il teatro ideale per Gigi, che ha respinto mille tentativi di portarlo nel continente, Moratti, Agnelli, miliardi, respinti al mittente come una proposta indecente di Zeffirelli, 400 milioni per interpretare la parte di san Francesco in Fratello sole, sorella luna.
Non era tipo da film, semmai da cinematografo di paese, sala buia, immagini fantastiche. Il fumo delle sigarette lo ha accompagnato sempre e da sempre, era il suo piacere privato, la nuvola serviva a nasconderlo, suggeriva pensieri, riflessioni sull’esistenza. Non era un filosofo, Gigi, ma uno che aveva capito che la vita non era soltanto la festa del gol, la vittoria sul campo, c’era altro, c’era Cagliari, i pastori, un popolo che aveva trovato l’uomo simbolo per il riscatto dalla fama cattiva dei sequestratori. Gol, lo scudetto del ’70, gli ingaggi non erano favolosi e sguaiati come oggi ma i premi partita quelli erano sontuosi e Martiradonna, suo compagno di squadra, lo implorò: «Gigi resta con noi, devo finire di pagarmi la cucina».
Poi la Nazionale, i gol al mondiale messicano, le braccia al cielo, una statua grandiosa, bellezza marmorea, si disse che fosse il Vittorio Gassman del calcio, mattatore, frutto proibito di mille donne ma la sua vita privata restò tale, l’amore forte con Gianna Tofanori, due figli, Mauro e Nicola, nessun pettegolezzo o commedia pubblica. In azzurro tre volte gli spezzarono le gambe, tre volte risorse, le sofferenze vere dell’infanzia furono le migliori lezioni. Ugo, il padre, era venuto via dalla prima guerra mondiale con una medaglia di bronzo al valore, aveva fatto il sarto, il barbiere, l’operaio di fonderia e una scheggia di ferro lo aveva trafitto uccidendolo. Quella memoria terribile Gigi se la portò appresso, certi suoi silenzi erano il rifugio della tristezza. Aveva un sorriso come la schiuma delle onde davanti alle quali ogni tanto stava, solo, solitario, scrutando il cielo che si feriva di lampi. Gianni Brera fu il poeta che gli consegnò lo stemma, prima nomandolo Brenno, barbaro generoso e temerario, poi, il 25 ottobre del ’70, Inter-Cagliari 1 a 3, Gigi fenomenale a San Siro, il maestro scrisse sul Guerin Sportivo: «Oltre 70mila spettatori, se li è meritati Riva che qui soprannomino Rombo di Tuono».
Il dopo calcio lo ha visto seguire la Nazionale ma mai concedersi, a conferma del suo censo umano, a ospitate televisive, da opinionista, vecchia gloria, parlatore del nulla come tanti, questo nuovo football non gli garbava affatto, quando sentiva di contrasti di gioco, di magliette tirate, di rigori facili, sbuffava e accendeva un’altra svaporina per poi schiacciare il mozzicone nel portacenere. Penso che così abbia chiuso la sua storia, una leggera nuvola di fumo e, fuori nel cielo cupo della sera, il rombo lontano del tuono, ultimo, finale.