Le Paris de la modernité (1905-1924), al Petit Palais, è la mostra più gettonata della capitale francese, quattrocento pezzi, fra quadri, libri, film fotografie, libri, abiti, memorabilia varia che coprono gli inizi del XX secolo e l’esplosione artistica che li percorse: Apollinaire e Duchamp, Satie e i Balletti Russi, Modigliani e Picasso, Man Ray, René Clair e Picabia…
A fare da spartiacque, c’è la Grande guerra del ’14-18, con i 630 tassì parigini requisiti per portare 4mila soldati dalla capitale al fronte, quando la Germania è arrivata sulla Marna e minaccia di assediare la città, i primi bombardamenti con gli zeppelin, l’allestimento dei primi ospedali militari addirittura nel museo del Grand Palais, la tragedia dei «grandi mutilati», la sfibrante e asfissiante, per l’uso dei gas, guerra di trincea… Eppure, subito dopo, ecco Parigi pronta a riannodare il filo con ciò che c’era stato prima, l’effervescenza di Montmartre e del suo Bateau-Lavoir, di Montparnasse e della sua cité de la Ruche, degli ateliers di pittura, dei music-hall e delle brasseries: Le Select, la Cupole… Adesso è la volta di Le boeuf sur le toit, sulla rive droite e non più sulla rive gauche, dei dadaisti e dei surrealisti, di Joséphine Baker che trionfa al Théâtre degli Champs Elisées con la Revue nègre, uno spettacolo che è un’esplosione scandalosa di seni nudi e gonnellini di banane… Le ragazze si tagliano i capelli alla garçonne, Tamara de Lempicka immortala un nuovo genere femminile…
Giustamente la mostra sottolinea l’importanza, finora sconosciuta, del quartiere degli Champs-Elisées, inedita geografia di presentazione e di consacrazione dell’arte moderna. È qui che prende corpo il nuovo «teatro delle avanguardie», i luoghi ufficiali che si alternano con i Salons d’automne e con i Salons des indipendents, ma anche gli spazi destinati all’automobile, alla bicicletta, agli sport… È qui che il sarto Paul Poiret apre il suo primo atelier, Madeline Vionnet e Jeanne Lanvin lo seguono e intanto si moltiplicano le gallerie d’arte fino a che, nel 1925, L’Exposition internationale des arts décoratifs et industriels modernes terrà a battesimo il termine Art déco.
È un dato di fatto che mai come allora Parigi fu la capitale della modernità e aveva ragione il russo Marc Chagall, che vi era arrivato nel 1911, ad osservare che «il sole dell’arte vi brillava e mi sembrava e ancora mi sembra che non esista più grande rivoluzione dell’occhio di quella da me qui incontrata fin dal primo giorno».
Belle Époque, Grande Guerra, Années folles punteggiano insomma questo primo quarto del secolo, un periodo e un percorso non lineari, ma contrassegnati dalla rapidità. Treni, metropolitane, automobili, aerei, innovazioni industriali ispirano gli artisti che eliminano dalle loro opere gli oggetti della quotidianità o ne modificano radicalmente i connotati o esplorano la strada dei nuovi media, per esempio il cinema, «arte moderna» per eccellenza. Vogliono essere contemporanei al loro tempo, esserne altresì gli iniziatori nonché i sacerdoti di un tempo nuovo e insieme di una nuova religione. Parigi diviene una «città mondo» e come tale accoglie il mondo. È anche una sorta di cantiere eternamente in funzione, cemento armato e nuove linee viarie, insegne pubblicitarie e meeting aerei. Visitando, assieme a Brancusi e Ferdinand Léger, l’Esposizione internazionale del trasporto aereo del 1912, Marcel Duchamp si sorprende a constatare che «la pittura ha chiuso». Colpito dalla vista delle gigantesche eliche Chauvière, prende una ruota di bicicletta la monta su uno sgabello e la fa girare: è il primo ready-made.
È una modernità, purtroppo, mortifera. L’uso dell’aviazione nella Prima guerra mondiale aggiunge un contributo non trascurabile al massacro della guerra di trincea. Alla fine del conflitto, i morti saranno dieci milioni e 20 milioni i feriti. «Scientifica e moderna», nella sua definizione, la Grande guerra è anche la prima a essere filmata e massicciamente fotografata.
«Più veloce, più alto, più forte» sembra essere la parola d’ordine di quel primo dopoguerra che rapidamente si rimette in movimento, les années folles, come saranno retrospettivamente definiti: raccontano la frivolezza e l’esuberanza di un’epoca oscillante fra crisi morale, angoscia esistenziale, stordimento e voglia di dimenticare. Hemingway li rimpiangerà, quasi mezzo secolo dopo, in quel Festa mobile che è il suo canto del cigno alla giovinezza e alla creatività di romanziere, «la Parigi dei tempi andati, quando si era molto poveri e molto felici».
Le Paris de la modernité è una festa degli occhi per chi ne percorre le sale, ricchissime di oggetti ben assemblati. Se ne esce con l’idea che tutto ciò che è venuto dopo, artisticamente e non solo, non è stato altro che una ripetizione. E, come ripetizione, inferiore all’originale che la tenne a battesimo.