Lenin compie cento anni (portati male)

Lenin compie cento anni (portati male)

A cento anni dalla morte di Lenin, che oggi taluni ricorderanno con ammirazione, conviene leggersi una magnifica lezione che Raymond Aron tenne al College del France, in piena epoca maoista, così come ce la riporta una recente raccolta curata con sapienza da Alessandro Campi (Teoria dell’azione politica, Marsilio editore). Per Aron quello di Lenin è un genio rivoluzionario per molti versi simile al genio di Clausewitz. Così come per il grande guerriero, anche per il politico rivoluzionario «la fede incrollabile, a lungo coltivata, nella verità superiore dei principi non ci farà dimenticare che, nonostante la loro forza, i fenomeni momentanei sono ordine inferiore». Ma Lenin ha un cosa in più: «è colui che inventa, creandolo dal nulla, uno strumento che ha la stessa importanza del cannone o delle file serrate, ed è uno strumento che ha un’efficacia straordinaria nell’azione militare: è l’innovatore e il creatore del partito, del partito di tipo bolscevico». Quella di Aron per Lenin non è tanto ammirazione, ma analisi lucida della sua affermazione. Lenin formula «la teoria dell’organizzazione del partito che voi conoscete a memoria, con la formula del centralismo democratico o del comitato centrale dotato di un ruolo affine a quello dello Stato maggiore di un esercito in guerra, organismo che al suo interno prevede un livello ancora più ristretto, l’ufficio politico, con la funzione di prendere tutte le decisioni importanti, con uno stato maggiore più ristretto ancora, il quale guida l’azione del partito e simultaneamente l’azione della classe operaia».

È chiaro che poi Trockij ne individui i pericoli: il segretario generale del partito diventa così il rappresentante del proletariato e il depositario di un potere assoluto. È forse questa l’essenza del leninismo. Il partito come un esercito, ma anche come un ordine religioso, il cui capo assoluto si permette però anche di fare concessioni e Lenin «è un grande uomo di azione che sa tollerare altri uomini al proprio fianco perché ha bene in mente cosa sia l’obiettivo: la rivoluzione incarnata appunto nel partito così organizzato. Ma Lenin non è Napoleone e nemmeno Hitler: «Egli non pensò mai che la rivoluzione potesse costituire il compimento delle sue ambizioni personali, ma piuttosto che rappresentasse la realizzazione delle ambizioni e delle aspirazioni della classe operaia». Non è detto che la figura che ne esce, quella del fanatico rivoluzionario, sia di per sé migliore, in termini pragmatici ma anche etici, a quella del fanatico tout court.

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