«Queerness è la scelta di abitare sulla soglia delle identità (intesa come maschera di rivelazione di sé), accettando di esprimere di volta in volta quella che si desidera e che promette di condurre alla più autentica felicità relazionale». Se non avete capito, rileggete. Se non avete capito neppure rileggendo andate avanti, è la stessa cosa. Il bello di Michela Murgia era che non si capisce niente di quello che diceva, ma bene ha fatto Rizzoli a pubblicare un suo libro postumo, Dare la vita, con materiali vari, per battere il ferro finché è caldo, soprattutto sulla testa dei lettori. Quando invece un paragrafo si capisce, è peggio: come quando appoggia Roberto Saviano il quale sostenne che «la mafia finirà quando finiranno le famiglie». Non le famiglie mafiose, ma tutte le famiglie, perché ogni famiglia è mafiosa. Ma parla per te, Roberto.
Gran parte del pamphlet postumo e riciclato è fondato su una quantità di supercazzole che neppure una suora sotto Lsd, ketamina, cocaina, un catechismo e un libro di Marx. Voglio dire: io, da liberale, sono per i diritti di ogni famiglia, gay, bisex, asessuata, non è così complicato. Se leggete la Murgia il concetto di famiglia scompare, a favore di che? Del fatto che la famiglia è rappresentata da coloro che scegliamo, non da chi ci è parente biologico, concetto molto ovvio e comprensibile se lo sapesse scrivere. Io tra l’altro non ho mai capito com’era questa famiglia non famiglia della Murgia, mi pare di aver capito una sorta di comunità Apache sarda. Che si sia sposata per consentire a un suo compagno o quello che era di andarla a trovare in ospedale sfonda una porta aperta: credo che chiunque, autorizzato dal malato, dovrebbe poterlo assistere in ospedale, figuriamoci in punto di morte.
D’altra parte Murgia stessa si è dichiarata un’attivista più che una scrittrice (c’eravamo arrivati tutti da soli), e questo libro è una buona cash cow per i lettori murgiani che vogliano ancora bere il suo latte murgiano. Viveva in un mondo tutto suo, la Murgia. Una parte importante del libro è dedicata al patriarcato, che la Murgia, badessa delle autrici femministe italiane, è noto, vedeva ovunque. «Il patriarcato, un sistema di poteri patogeno dove le persone sono ruoli inamovibili, le relazioni dispositivi di controllo, i corpi di demanio pubblico e i legami familiari meccanismi di deresponsabilizzazione». Di chi sta parlando? Di tutti, esclusa lei, l’amico Saviano, e l’amica Valerio Chiara, alla quale è stato passato il testimone e ora sarà candidata per il Pd (scordatevi i diritti), altra autrice che in questa società patriarcale, con poco, dedita alla propria scalata sociale, sta ottenendo molto. È come la La Gioia ma punta ancora più in alto.
In uno dei passaggi più chiari (nel senso di chiaravaleriani, pronto a essere usato in campagna elettorale, evitando le campagne, perché i contadini sono più pragmatici), Murgia scrive: «Quel che dico contro la logica biologica del patriarcato eteronormativo di Stato – che identifica la maternità con la gravidanza e la famiglia col sangue lo dico da madre d’anima, da membro di una famiglia fatta di legami d’altri». Se non è chiaro dovete chiedere a Chiara, Valerio. È rilevante il concetto di queer, che la madre d’anima ha stravolto a modo suo (come anche la religione cristiana, da cattolica femminista, declinandola al femminile con il suo Ave Mary): «Allo stato attuale delle teorie queer, il termine indica in ogni caso un approccio transitorio, interstiziale, non binario: una resistenza a definizioni che stiano definitivamente dentro o fuori della soglia su cui la queerness è sempre rimasta. Per questa ragione il fatto che il termine lo usassi io disorientava». Io penso che più che disorientare sembra un mix tra un comunicato della Cgil, una denuncia scritta dalle forze dell’ordine, e un Tik Tok tarantolato di Valerio Chiara.
È divertente che io stesso, oltre a essere stato sottoposto a fatwa dalla Murgia, che organizzò un boicottaggio perché le mie opere non fossero più pubblicate, fossi additato da Murgia e murgiane come maschio maschilista etero cioè omofobo, quando ho una figlia e un compagno e una compagna da trent’anni e non mi sono mai posto tanti problemi nello spiegarlo (d’altra parte ogni vero scrittore è maschio o femmina a seconda di come si sveglia la mattina, di tutte queste questioni se ne frega). Sono anche a favore dei diritti di ogni coppia, di ogni singolo, e anche dell’utero in affitto (che spacca destra e sinistra) perché per me si può vendere tutto, per l’Occidente ogni individuo è un consumatore: sono un liberista sfrenato, e poi in generale penso che l’utero è mio e me lo gestisco io (non mio, ma di chi ne ha uno proprio, affittato o meno).
Invece neppure dirsi gay, etero o bi è sufficiente, per il pensiero murgiano. «Non necessariamente noi persone queer dobbiamo dirci gay, per esempio, o bisessuali, né trovare un’altra definizione permanente nello spettro della sessualità e dell’amore né normativo né binario, per poter esistere nella soglia salvifica e sempre un po’ selvatica della queerness. La nostra stessa esistenza è legata al rifiuto di qualsiasi definizione che non sia praticata attraverso la non-definizione, il dubbio, la domanda». La soglia salvifica, selvatica, la non definizione, il dubbio, la domanda, che vita.
Qualcuno mi dirà che non sta bene parlare male dei morti, ma anche qui sono contrario: ne parlo come quando era viva. Parlare bene di una persona solo perché non c’è più mi sembra una grande mancanza di rispetto per il defunto. Mi spiace solo non possa organizzare un’altra fatwa per cercare di farmi fuori, ma c’è sempre Valerio Chiara, la figlia della madre d’anima, vai a sapere cosa può succedere.