Alla metà degli anni Sessanta, Sándor Márai decise di tornare, per la seconda volta, in Italia. Esule dall’Ungheria dal 1948, la prima volta aveva ingenuamente pensato che l’Italia uscita dal fascismo e dalla dittatura potesse accogliere chi come lui era fuggito dal nazismo (sua moglie era ebrea) e dal comunismo. Napoli gli era sembrata l’approdo ideale, la città di Benedetto Croce e quindi la capitale del pensiero liberale. Non aveva tenuto conto che in quell’Italia del secondo dopoguerra era il pensiero gramsciano ad aver conquistato l’egemonia e lo storicismo crociano era considerato il residuo passivo di un’Italia giolittiana che con il fascismo aveva in fondo convissuto. Culturalmente parlando, il Paese pensava a sinistra e Márai aveva il torto di essersene andato da una nazione dove il socialismo reale era stato da poco instaurato per volontà, e con la forza, di Stalin. In più, Márai era uno scrittore borghese, qualunque cosa questo termine volesse significare, e quindi reazionario, per non dire, appunto, fascista. Il cerchio insomma si chiudeva e lì dove lui pensava di trovare le porte aperte, le porte gli venivano chiuse in faccia: con molti sorrisi, molta ipocrisia, qualche ammonimento e qualche consiglio a ravvedersi, a fare, se è il caso, pubblica abiura… La congiura del silenzio.
Così, nel 1952 e fino al 1968, Márai era emigrato negli Stati Uniti, collaboratore di Radio Free Europe, un editore inglese a salvarlo dal più completo anonimato. Anche qui, il trapianto culturale non era però riuscito e l’atteggiamento avventato e insieme cinico della amministrazione americana nei confronti dell’insurrezione praghese del 1956 aveva sancito il rigetto. Spinti a insorgere e a combattere e poi di colpo lasciati in balìa dei carri armati dell’invasore sovietico… Per Márai era una macchia indelebile a cui si aggiungeva la totale incomprensione dell’american way of life: lui era europeo dalla testa ai piedi e l’individualismo americano, la modernità americana, il consumismo americano gli facevano orrore. Aveva ottenuto la cittadinanza, e di ciò era grato al governo di Washington: ma non se la sentiva di dargli l’anima. Così, nel 1968 era tornato in Italia, a Salerno, questa volta. Ci sarebbe rimasto per oltre un decennio.
Adesso Albin Michel pubblica il suo Journal. Les années d’exil 1968-1989 (pagg. 553, euro 25). Nella sua patria, e non solo, Márai oggi è scrittore di culto, ma ancora nel 1989, l’anno della caduta del Muro di Belino, aveva rifiutato qualsiasi compromesso con il traballante regime comunista che però ora lo voleva riaccogliere: «Resa totale, senza condizioni da parte loro, pubblicano tutto, veramente tutto, la mia opera completa. Fenomeno interessante, come annunciante laggiù l’inizio di una disintegrazione. Non do alcuna autorizzazione fino a quando le truppe sovietiche occupano il territorio. E quando se ne andranno, fino a quando non si organizzano in loco elezioni libere e democratiche sotto sorveglianza internazionale». L’idea di diventare un monumento, «rilegato in cuoio» come i suoi libri, lo lasciava del resto indifferente: «Tutti i monumenti fanno la stessa fine: i cani vanno a pisciare sui loro basamenti». Inoltre, lì in Ungheria non c’era più nessuno della sua famiglia, dei suoi amici. Erano tutti morti, così come i suoi nemici di un tempo. «Se dovessi rientrare, non troverei nessuno contro cui insorgere»…
Tornando all’Italia, Márai ritrovò un Paese più fragile rispetto a quello che aveva lasciato: «Tutto è senza forza e sul punto di marcire». Si salvava l’umanità individuale delle persone, la bellezza straordinaria della lingua, l’unica, a suo parere, in grado di essere la lingua comune di un’Europa unita, come un tempo era stato il latino. Ma per il resto c’era il caos, gli scioperi, «una guerra civile senza barricate, più pericolosa di quando le barricate sono visibili». La contestazione studentesca del ’68, sull’esempio francese, gli fece constatare che «il potere non è soltanto un’azione organizzata, ha anche a che fare con la magia». Quando questa si spegne, ed era il caso di de Gaulle, avviene una sorta di erosione ed è l’insoddisfazione a tenere banco. Non era qualcosa di inerente alla sola politica: «L’effetto magico può sparire anche intorno a una forma d’arte, o a una persona, scrittori, creatori intellettuali. Quando avviene, bisogna ritirarsi per qualche anno o per un millennio, e allora, a volte, la batteria magica si caricherà di nuovo».
Il Sessantotto è però anche l’anno della Cecoslovacchia e la sua somiglianza con ciò che era avvenuto dodici anni prima nella sua Ungheria gli appare «allucinante: il bianco è ridiventato nero, il nero bianco, i liberatori arrivati sui loro carri armati son intervenuti per l’appello del popolo, per liberare i cechi e gli slovacchi dai traditori fascisti, il mondo intorno protesta… Sentendo tutto ciò, mi dico, per la prima volta nella mia vita: È troppo e non corrisponde più a una dimensione umana. Per la prima volta, la Storia mi stanca»…
Arrivato ai settant’anni, Márai si vede costretto ad ammettere di «non aspettarsi niente, non aver paura di niente, non credere in niente». Ciò che lo tiene in vita è l’amore per la moglie e la sua condizione di scrittore. Ma quello che è stato un autore rispettato e di successo si è ridotto a essere uno scrittore a proprie spese, che si stampa e si vende i suoi libri… «Dopo tutta una carriera, non è strano che mi resti solo questo modo artigianale? Ma a che serve scrivere se non si paga il prezzo della libertà di pensare e di scrivere?».
Il Journal è pieno di annotazioni di libri letti, di autori noti, di scoperte e di recuperi. Nato nel ‘900, vissuto per anni a Parigi, giornalista e uomo di teatro, membro del Pen Club, Márai conosce bene il mondo letterario del suo tempo, da Mann a Malraux, da Gide a Hemingway, a Montherlant. Ma è anche un fedele lettore di Tacito e dei classici in genere, nonché un accanito frequentatore di biblioteche, «gli ultimi rifugi dove ancora si può sfuggire ai ruggiti meccanici della civiltà di massa». È però soprattutto un uomo solo, isolato nella sua lingua, l’unico elemento che continui a farlo sentire, nonostante tutto, a dispetto di tutto, ungherese. «Non c’è che una patria, è la lingua materna e essa resta patria anche se è parlata da un piccolo numero di persone, anche se è parlata soltanto nella diaspora. All’epoca di Pericle, la lingua greca era parlata da non più di 200mila persone e solo qualche dozzina fra loro ha creato in questa lingua una visione della vita e una filosofia valida per ogni tempo». Trova antipatico tutto ciò che sa «di destra e di conservazione», così come «di sinistra, progressista e socialista», ma se proprio si dovesse definire, «conservatore di sinistra» è l’etichetta che lo potrebbe rappresentare…
Il Journal di Márai, dicevamo prima, è il diario di un uomo solo, che l’età costringe tutti i giorni a fare i conti con sé stesso: «C’è sempre qualche centesimo che manca». Quando nel 1980 decide di tornare negli Stati Uniti, è soprattutto per ragioni mediche: la moglie è malata e la chirurgia americana gli sembra la più adatta nei confronti di chi è in là con gli anni. A differenza dell’Italia, lì funziona tutto, a pagamento, ma funziona, e lui, al di fuori delle spese mediche, non ha vizi né interessi che gli costino altro denaro. In più, il suo figlio adottivo vive lì, è una presenza amica, qualcuno sul quale contare.
Gli ultimi anni saranno però terribili, le sue condizioni di salute peggiorano, muore la moglie, muore ancora giovane anche quel figlio… Mentre il mondo letterario ungherese preme, lo abbiamo visto, per riaverlo con sé ed è pronto a fagli ponti d’oro, Márai compra una pistola e va a impratichirsi al poligono di tiro. Poi nella solitudine della sua casa di San Diego, il 21 febbraio del 1989 si spara un colpo. L’ultima riga del Journal, scritta una settimana prima, dice: «Attendo la chiamata, senza accelerarla, ma senza nemmeno ritardarla. L’ora è arrivata».