Escalation dei missili, ruolo di Hamas e ombra della Cina: cosa può succedere

Dentro al patto tra Hamas e Iran: ecco il vero piano dei pasdaran

Il Medio Oriente, largo o stretto che s’intenda, è una polveriera in fiamme. Nel giro di soli tre mesi, infatti, l’area, già claudicante da decenni ha visto moltiplicarsi gli attori-statali e non-in gioco- trasformandosi in una guerra regionale a episodi simultanei.

Il legame “armato” tra Hamas e la Cina in Medio Oriente

Alcuni giorni fa, da queste colonne, avevamo già accennato al legame oscuro tra Hamas e la Cina. Dapprima era stato il Telegraph a riportare la notizia della scoperta di ingenti scorte di armi cinesi a Gaza: fucili d’assalto QBZ, lanciagranate automatici, mirini telescopici, cartucce per M16 e apparecchiature per comunicazioni di tipo avanzato. Se per i cronisti britannici era stato facile capire la provenienza di tale santabarbara, più complesso è spiegare come le armi cinesi arrivino a Gaza. Secondo la forze israeliane, questo tipo di rifornimenti non giungerebbero direttamente da Pechino: tuttavia, è indubbio, che queste forniture hanno fatto compiere un salto di qualità alla capacità offensiva di Hamas. Secondo l’intelligence di Tel Aviv sarebbe la prima volta che armamenti cinesi vengono ritrovati nei covi di Hamas: questo corrobora il legittimo sospetto che esista un sensale tra i due, presumibilmente un attore statale. Indiziata numero uno, l’Iran, che potrebbe aver fatto da mediatrice nelle forniture.

Lo strano caso di Cina e Pakistan: “sorelle” che si attaccano

Oggi, quello stesso Paese sospettato di mediare il traffico di armi verso Gaza, oltre a essere patron di Hezbollah, ha ingaggiato una strana battaglia con il Pakistan. Quello tra Islamabad e Teheran non è uno scontro tra i rispettivi eserciti, ma un incrocio di attacchi mirati contro presunti “obiettivi terroristici”. Due nazioni “sorelle” che potrebbero aver ingaggiato una possibile escalation (senza avvisarsi l’una con l’altra? Strano), in virtù della condivisione di un confine instabile, che si estende per circa 900 chilometri, dove entrambe combattono da tempo i militanti separatisti baluci. Dopo i rispettivi raid, entrambe le parti hanno rilasciato dichiarazioni in cui hanno lasciato intendere di non volere che la situazione degeneri. Il ministero degli Esteri pakistano ha definito l’Iran un “Paese fratello” e ha sottolineato la necessità di “trovare soluzioni comuni”. La controparte iraniana ha definito il Pakistan un “Paese amico” e ha affermato che gli attacchi sono stati proporzionati e mirati solo ai terroristi. Difficile valutare questa marea montante di azioni e reazioni, spesso apparentemente contraddittorie.

L’Iran si è presa ciò che voleva

Ciò che però appare più che lapalissiano, è che il minimo comune denominatore di queste turbolenze sia l’Iran. Era il 2019, l’anno “prima della tempesta”, quando si segnalava come Teheran non avrebbe più accettato di lì a poco, un ruolo di comprimaria nell’outer ring mediorientale. In qualità di nazione più grande del Medio Oriente, possiede un’estensione territoriale e una posizione geografica in grado di far da ponte fra più mondi. I miliziani Irgc, nati dopo la rivoluzione del 1979 per proteggere il regime teocratico, e la loro emanazioni, i Quds, sono lo strumento attraverso cui proiettare il potere della nazione oltre i confini dell’Iran. Essa opera interamente nell’ombra, sostenendo gruppi terroristici e milizie straniere, impegnandosi in operazioni di guerra non convenzionali sotto forma di attacchi terroristici, omicidi e rapimenti: ciò che oggi chiamiamo guerra asimmetrica. L’obiettivo di Teheran è dunque quello di giungere al Mediterraneo attraverso i famigerati “ponti di terra”: uno attraversa Baghdad e poi la Siria, un altro passerebbe attraverso Baghdad e Al-Qaim al confine siriano e un terzo passerebbe attraverso Kirkuk e poi la Siria nord-orientale. Ma i corridoi potrebbero perfino aumentare ed allargarsi: con l’uscita degli Usa dalla Siria, infatti, l’espansione terrestre iraniana non ha fatto altro che crescere.

Cosa può succedere adesso: l’ira di Pechino

Sembra, dunque, arrivato per Teheran il momento di raccogliere tutti i proxy alla corte dei miracoli e sfruttare la loro adorazione per regolare i conti nell’area. Questo spiegherebbe anche perchè un gruppo come Hamas, di stampo sunnita, accetti il supporto di uno chaperon internazionale sciita. All’indomani del 7 ottobre, un portavoce di Hamas, Ghazi Hamad, rese noto fin da subito che il Movimento di resistenza islamica aveva ricevuto “il diretto sostegno dell’Iran”, suo fermo alleato, nell’attacco a sorpresa condotto contro Israele e che questo era motivo di grande orgoglio. Obiettivo principale? Destabilizzare l’area, impedendo la normalizzazione del mondo saudita con Israele, suo acerrimo nemico. C’è però un gigante con il quale Teheran non ha fatti conti, ed è Pechino.

La Cina, infatti, incapace di mediazione diplomatica per costituzione, si è dichiarata immediatamente disposta a mediare tra Pakistan e Iran dopo gli attacchi incrociati tra i due paesi per colpire presunti militanti terroristici nelle regioni di confine. Una disponibilità rapida e sospetta, in un attacco rapido e sospetto fra due Paesi strettamente “amici” di Pechino. Entrambe le nazioni, infatti, sono state coinvolte nei piani economici di Pechino: negli ultimi anni Pechino ha sviluppato enormi progetti di trasporto in Pakistan, facendo dell’asse Asia centrale-Caucaso-Turchia la sua principale rete di trasporto in direzione est-ovest. Teheran è, dunque rimasta fuori dai principali progetti cinesi. Questo non toglie che la Cina abbia investito tantissimo in Iran e ora, le turbolenze in Pakistan, rischiano di minare ancora la Belt and Road, proprio come ha fatto la guerra in Ucraina. Un’emergenza pragmatica che potrebbe far scendere in campo Pechino, come non abbiamo mai visto finora.

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