La rotta di Alviero Martini nelle mani del commissario

La rotta di Alviero Martini nelle mani del commissario

Da una parte i lustrini e le passerelle dell’alta moda, dall’altra la muffa e lo sfruttamento degli opifici-dormitorio cinesi. È il quadro emerso ieri dal provvedimento che dispone l’amministrazione giudiziaria della Alviero Martini spa. Il commissariamento della Sezione autonoma misure di prevenzione del Tribunale di Milano arriva dopo un’inchiesta del Nucleo ispettorato del lavoro dei carabinieri coordinata dal pm Paolo Storari. L’azienda con sede a Milano e famosa nel mondo per le borse con le cartine geografiche è «ritenuta incapace di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo nell’ambito del ciclo produttivo». In sostanza, avendo esternalizzato in toto la produzione, non avrebbe vigilato sul rispetto delle regole da parte di appaltatori e subappaltatori, che a loro volta facevano «ricorso a manovalanza in nero e clandestina», sfruttata e pagata con retribuzioni sotto la soglia di povertà (circa 6 euro l’ora).

Gli inquirenti descrivono il cosiddetto sistema «a strozzo». La merce venduta dai canali ufficiali del marchio Alviero Martini usciva a 20 euro da un opificio cinese, quindi veniva prezzata a 30 euro dall’altro subappaltatore interposto con la società appaltatrice ufficiale. Quest’ultima fatturava a sua volta la borsa a 50 euro al brand di alta moda, che la metteva in vetrina a 350 euro. La società commissariata non è indagata, ma per il Tribunale le criticità emerse nei confronti dei lavoratori impongono che un’impresa «rappresentativa del Made in Italy tanto apprezzato all’estero, ed avente rilevanti dimensioni», possa «adeguare i presidi di controllo interno» in modo da evitare «che la filiera produttiva si articoli attraverso appalti e subappalti con realtà imprenditoriali che adottino le illecite condizioni di sfruttamento dei lavoratori» e che rafforzi i presidi «relativi alle verifiche reputazionali dei fornitori». Nell’inchiesta sono indagati per caporalato «dieci titolari di aziende di diritto o di fatto di origine cinese». Sono stati controllati otto opifici nelle province di Milano, Monza e Brianza e Pavia. «Laddove emergessero – fa sapere la società – attività illecite effettuate da soggetti terzi, introdotte a insaputa della società nella filiera produttiva, assolutamente contrari ai valori aziendali, Alviero Martini si riserva di intervenire nei modi e nelle sedi più opportune».

Un altro grosso gruppo di moda, Boggi, è invece arrivato all’esito di un procedimento penale a carico dei suoi vertici per l’ipotesi di esterovestizione, la falsa residenza fiscale in un Paese con regime più vantaggioso dell’Italia dal punto di vista della tassazione, in questo caso Portogallo e Usa. Due giorni fa i titolari, i fratelli Zaccardi, assistiti dagli avvocati Domenico Aiello e Lorenzo Bertacco, sono stati prosciolti dal gup dalle accuse di omessa dichiarazione dei redditi e autoriciclaggio. Una manager, legale rappresentante di due società estere legate al gruppo, ha invece patteggiato sei mesi, poi convertiti in 45mila euro di ammenda. L’inchiesta riguardava i bilanci 2010-2015. La premessa all’esito in Tribunale, che aveva portato prima a una richiesta di archiviazione del pm (respinta a suo tempo dal gip) e poi all’istanza di proscioglimento, è l’accordo dell’azienda con il Fisco per il pagamento delle tasse arretrate per totali 40 milioni.

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