Eppure il giornalismo non è morto. Capita di vederlo alzarsi dal giaciglio della sua agonia con l’aria di chi non ha nessuna intenzione di farsi sotterrare. E purché ci sia una storia interessante da raccontare eccolo riprendere i colori rosei della sua eterna giovinezza.
Mi permetto questa riflessione mattutina, e stranamente speranzosa, dopo aver letto d’un fiato l’agile e vibrante volume di Manila Alfano, firma del Giornale, La lunga notte di Vicarello. Cronaca della più lunga rapina con ostaggi d’Italia (Jaba, pagg. 144, euro 16,50) che fa rivivere, dopo studi indomiti su sudate carte d’archivio e ascolto di testimoni presenti sul campo, una vicenda che rumoreggiò per giorni sulle tivù e sfondò le prime pagine di quotidiani e rotocalchi nel settembre del 1990, per poi incredibilmente sparire dai ricordi collettivi degli italiani, svanendo persino nella testa di quelli del mestiere. Ammette di non averne conservato traccia nelle celluline grigie persino Maurizio Belpietro, pur dotato di memoria pachidermica, e che dedica al racconto di Manila una bella Premessa che consiglio vivamente di leggere sì ma a posteriori, perché ha il torto di anticipare come va a finire. Cosa che io mi guarderò bene dal rivelare, perché queste pagine non sono la ricostruzione storica di un evento, ma trasferiscono fisicamente il lettore sulla scena del crimine, dietro le linee tracciate da polizia e carabinieri per delimitare lo spazio del delitto, con una tecnica che è la pura arte o, se volete, l’artigianato del cronista. La totale immedesimazione con quello che sta accadendo a qualche metro dal suo taccuino, sentendo il brusio dei passanti, costruendo da un particolare percepito da una conversazione tra carabinieri, dal grido della madre del delinquente o del figlio della vittima, la commedia-tragedia umana che si sta svolgendo qualche metro più in là.
È il caso che rievochi i fatti. Il 26 settembre del 1990 due carcerati per omicidio usufruiscono di un permesso di qualche giorno per buona condotta, in base alla legge Gozzini. E mettono in pratica un piano che dovrebbe garantire loro una serena vecchiaia una volta scontata la pena e recuperato il bottino. Scoprono infatti l’esistenza di una prospera gioielleria in un paessetto di 4mila abitanti vicino a Livorno, e soprattutto a pochi minuti d’auto dalla base americana di Camp Darby, ricchissima di clientela danarosa per gemme e ori che i soldati Usa regaleranno alle loro fidanzate, mogli, mamme. I due rapinatori sono convinti di razziare un tesoro miliardario senza troppa fatica, la caserma dei carabinieri sta a venti minuti, la strada permette fughe volanti. C’è un problema: Lido Meucci, il 69enne titolare del negozio, ha già subito otto rapine, e il figlio che lavora e vigila nel laboratorio soprastante, ha predisposto un meccanismo leonardesco per bloccare nel cubicolo tra vetrine e banco i malfattori. Il fatto è che restano in trappola anche le vittime, tra i quali, oltre al commerciante, c’è l’amico del cuore, uno spiritoso avventore di nome Sovrero, che terrà alto – si fa per dire – il morale della strana compagnia di carnefici e ostaggi a furia di creative imprecazioni tipo «Maremma insaponata» e simili. Durerà 83 ore l’assedio delle forze dell’ordine con diretta televisiva, e telefonate-interviste di giornalisti a sequestratori un po’ bulli e un po’ disperati e ai loro prigionieri che a un certo punto, secondo le note leggi della psicologia umana, diventano solidali con quelli che chiamano «bravi ragazzi dal cuore d’oro».
La famosa sindrome di Stoccolma riaccade in Toscana? Forse. Ma chissà perché la storia scandinava verrà sezionata da migliaia di psicologi, criminologi, sociologi, persino astrologi, mentre nulla di simile capiterà per la vicenda di Vicarello. Anche i giornalisti stranieri si terranno in quei giorni nei confini sicuri di «pizza e mafia» pur ambientata tra le amene colline ricche di vitigni, con il piacevole pittoresco tocco di una mamma in lacrime e di una amante scarmigliata e furibonda, oltre che di una ex rapinatrice mistica. Stereotipi noiosi.
Per questo il lavoro di Manila Alfano è al contrario da grande cronista: non impiega la fantasia, non dà la stura ai pregiudizi: la realtà che riscopre 33 anni dopo è più sorprendente e luccicante della immaginazione. Il giornalismo diventa letteratura. Scopre che Francesco, il veneto che guida la malaparata, è orfano di un carabiniere, che il gregario è un siciliano autore di un delitto passionale (ha ammazzato il marito dell’amante, un maschicidio, direi). Il procuratore di Livorno per convincerli a desistere porta nel negozio-buco la madre veneta dell’uno e la compagna bolognese dell’altro, che deve spupazzare tre bambini e tirare avanti da sola un bar. Come se non bastasse i carabinieri fanno arrivare in elicottero una suora ex numero due di René Vallanzasca, che – a quanto pare – invece di convincere i due briganti ad arrendersi, impugnando il rosario, gioca a fare l’amica del giaguaro in nome dell’antica militanza. Poi arrivano gli avvocati incappottati, forieri di buoni consigli.
Come andrà qui non lo svelo. Ma non è il finale a costituire l’essenziale, ma l’accadere istante per istante, i dialoghi ricostruiti con penetrazione degli stati d’animo, la descrizione di com’era la vita della famiglia del gioielliere prima del crimine: «una routine monotona e appagante», e dopo non sarà mai più uguale. E diventa una storia vera che suscita nostalgia di un giornalismo che da sotto la crema soffocante e mentitrice di internet riesca a rialzarsi in piedi, «Maremma insaponata!».