Gli attacchi da parte dei ribelli Houthi alle navi in processione lungo il Mar Rosso rischiano di riproporre la «sindrome del collo di bottiglia», tristemente nota ai tempi del Covid. Quando l’effetto pandemico più immediato ed eclatante sull’economia fu il collasso delle catene degli approvvigionamenti che diede poi la stura al surriscaldamento dell’inflazione.
Così, le aumentate tensioni in Medio Oriente hanno portato fra le montagne di Davos, dove è in corso il World Economic Forum, un convitato di pietra che ha il profilo dell’incertezza. Tenuto conto che le prime stime parlano di costi di trasporto che potrebbero lievitare del 61% a causa del crollo degli attraversamenti dello stretto Bab el-Mandeb, nessuno al momento è ancora in grado di sciogliere l’interrogativo su quale potrebbe essere l’impatto sull’andamento dei prezzi e, quindi, sulle mosse delle banche centrali.
Di sicuro, la narrazione prevalente secondo cui il 2024 sarebbe stato l’anno dedicato a riportare le politiche monetarie nell’alveo della normalità sta ricevendo qualche duro colpo. Soprattutto sul versante Bce. Non solo dal lato valutario, dove l’euro ha chiuso ieri sotto 1,09 dollari (è il punto più basso da metà dicembre), ma anche dopo che il capo della banca centrale austriaca, Robert Holzmann, ha rispolverato proprio al Forum l’armamentario lessicale da falco duro e puro: «Non dovremmo contare sul taglio dei tassi per il 2024», ha ammonito, poiché «quel che abbiamo visto finora per gli Houthi potrebbe essere l’inizio di un qualcosa molto più ampio, con impatti sul Canale di Suez e conseguenti aumenti dei prezzi in quell’area». Sempre da Davos, il numero uno della Bundesbank, Joachim Nagel, non ha invece avuto bisogno di alcun alibi mediorientale per scandire tre caveat: l’inflazione è ancora «troppo alta»; il costo del denaro rimarrà al 4,5% almeno fino all’estate; è «prematuro» ipotizzare allentamenti. Né c’è traccia dei quattro alleggerimenti da parte della Bce previsti mercati nelle dichiarazioni meno tranchant del francese François Villeroy de Galhau («Prevedo un taglio quest’anno») e dello spagnolo Mário Centeno, stringatissimo nel dire che il carovita è su una buona traiettoria.
E mentre gli occhi dell’intero gotha della finanza saranno puntati oggi sull’intervento nel Canton Grigioni della presidente dell’Eurotower, Christine Lagarde, che ribadirà probabilmente come le decisioni future della Banca Centrale dipenderanno dai dati economici, provvede il Fondo monetario internazionale a far calare la pietra tombale sulle aspettative di un rapido taglio del costo del denaro.
Anche l’organismo di Washington sposta l’inversione di marcia alla seconda metà dell’anno, considerando «premature» una serie di sforbirciate aggressive ai tassi a causa di mercati del lavoro ancora tesi sia negli Stati Uniti, sia in Europa. «Anche se l’inflazione è scesa, il lavoro non è finito», afferma da Davos Gita Gopinath, primo vicedirettore generale dell’Fmi. Secondo cui l’economia statunitense ha già assorbito circa il 75% degli effetti derivanti dalle strette della Fed, mentre nell’eurozona la trasmissione è molto meno marcata dato il ritardo con cui la Bce si è mossa.
Insomma: Lagarde & C. possono restare seduti sulla riva del fiume prima di smettere di far la faccia feroce all’inflazione.